Il teatro misterioso e sconfinato di Eleonora Pippo
Intervista a cura di Massimo Milella
Immagini tratte da Le ragazzine stanno perdendo il controllo. La società le teme. La fine è azzurra. di Ratigher.
Eleonora Pippo ha portato al Teatro della Tosse di Genova, dopo il Kilowatt Festival a Sansepolcro e Soliera, la terza tappa del suo Le ragazzine stanno perdendo il controllo. La società le teme. La fine è azzurra.
Diplomata alla Scuola del Teatro Stabile di Torino e formatasi poi con Agrupacion Señor Serrano e Thomas Ostermeier, la regista di Pordenone sta portando avanti un suo percorso molto personale, sempre più apprezzato.
Tra i suoi ultimi lavori spiccano Save your wish, performance sulle derive consumistiche del nostro tempo, e il musical Lo-Fi Cinque allegri ragazzi morti.
Le ragazzine stanno perdendo il controllo. La società le teme. La fine è azzurra.
Il titolo del fumetto di Ratigher sembra un haiku. Com'è nato l'incontro con quest'opera? Cosa ti ha colpito della sua storia?
Mi ha colpito il titolo. Mi si è aperto subito un immaginario ricchissimo in poche parole che mi ha spinta a comprare il fumetto. Della storia mi colpisce la fine misteriosa e sconfinata.
Quali sono i procedimenti drammaturgici e registici che hai utilizzato per adattare un fumetto alla scena?
Quello che faccio quando metto in scena un fumetto è proprio non adattarlo alla scena. Prendere le parole che l’autore ha scritto e trattarle come se fosse Beckett senza modifiche. Tutti i problemi che la messa in scena di un linguaggio estremamente sintetico comporta sono la mia risorsa. Quei vuoti, che una scrittura di questo tipo portata sul palcoscenico lascia, sono in realtà degli spazi nei quali accade il teatro. Nei quali si crea una relazione intima e fortissima tra pubblico e performer.
Sono molto curioso di conoscere le reazioni delle ragazzine che hai coinvolto delle varie città, rispetto alla proposta di questa storia. Quali sono le parole che ti vengono in mente per tentare di ripercorrere questi incontri con loro?
Per ora – al 25 febbraio, ndr - ho fatto tre versioni di questo lavoro. Ogni volta è un’esperienza nuova. Ogni volta si tratta di lasciar andare il passato per scoprire qualcosa di nuovo. Per ora posso dire che più le ragazze sono giovani più il lavoro è cupo e perturbante.
Qual è stata la peculiarità dell'esito genovese, rispetto a quello che hai osservato in altre città?
La compagnia locale temporanea RAGAZZINE GENOVA 2018 – questo è il nome completo – è composta da ragazze estremamente determinate, coraggiose e accoglienti.
Per la prossima edizione della Biennale Teatro a Venezia, è stato scelto come tema di riflessione principale l'attore/performer. Tu hai avuto una formazione da attrice, ma uno dei tuoi lavori maggiormente apprezzati, Save your wish, ha una vocazione performativa, per le possibilità dello spazio non tradizionale, la relazione attiva col pubblico, ecc. E, in fondo, anche Le ragazzine si ritaglia uno spazio di coinvolgimento degli spettatori. Hai mai elaborato una tua riflessione sui confini tra attore e performer?
Dietro a quello che viene chiamato performer spesso si nasconde solo un attore cane. Ho sicuramente deciso di spostarmi dalla perfezione tecnica, dalla formazione accademica dell’attore per capire quale linguaggio il teatro debba parlare per poter essere efficace oggi. Per questo motivo lavoro con delle ragazze che non solo non sono attrici formate, ma non sono neanche persone formate.
Cosa mi dici invece della tua adolescenza a Pordenone? Quali dinamiche senti in comune sia con i personaggi di Ratigher che con le adolescenti di oggi con cui hai lavorato? E quali eventuali difficoltà?
Sì, io sono di un piccolo paese in provincia di Pordenone, San Quirino e ogni volta che faccio Le ragazzine parlo alla ragazzina che ero. La cosa difficile di questo lavoro e dell’incontro con le ragazze è vivere un’esperienza nuova insieme a loro ogni volta, trovare un equilibrio tra schema e improvvisazione, tra controllo e libertà.
Com'è il tuo rapporto con il teatro ragazzi? Hai modo di vederlo, di seguirlo? Che idea te ne sei fatta?
No, non ho mai visto teatro ragazzi, neanche da ragazza. Non lo conosco.
Cosa ti piace vedere a teatro?
I Rimini protokoll – collettivo di registi tedeschi, attivo dal 2000 con installazioni, performances, radiodrammi e spettacoli di grande innovazione, Leone d'argento a Venezia nel 2010, ndr.
A partire dal tuo ultimo passaggio a Genova, mi piacerebbe indagare su ciò che circonda e attraversa il tuo teatro, l'approccio, le origini, i confini.
Troppa roba?
Sì, effettivamente è tanta roba… Le ragazzine però parla proprio di questo: di confini, di limiti, di definizione di sé e quindi dell’altro. Le ragazzine parla di morte, intesa come il confine della vita. Il limite che, se riconosciuto e affrontato, dà valore alla vita. La perdita di controllo del titolo è in realtà il ritrovamento della libertà attraverso l’accettazione e la conoscenza della morte. Affrontare e accettare il problema libera dalla paura. Tanta roba?
In particolare, qual è il livello di indipendenza del tuo spettacolo dal lavoro di Ratigher?
Il lavoro di Ratigher è un innesco. E insieme un punto di riferimento che abbandono e che riprendo a seconda delle necessità. È un filo conduttore.
Quale potrebbe essere l'evoluzione del tuo Le ragazzine?
Il limite di Le ragazzine è che non ci sono i ragazzini, quindi il prossimo lavoro parlerà anche di loro o magari tratterà quasi esclusivamente quell'argomento lì.
Vorrei continuare a lavorare con Ratigher sulla scrittura di una drammaturgia originale.
Nella biografia che ho trovato sul tuo sito, ti definisci allieva "inquieta" di Giancarlo Cobelli e Marisa Fabbri allo Stabile di Torino. Ci puoi raccontare le modalità di questa "inquietudine"? Cosa ritieni di aver imparato?
All’epoca non lo sapevo ma avevo già una posizione registica riguardo all’interpretazione. L’inquietudine di cui si parla perciò è che ero difficile da dirigere. Con Giancarlo Cobelli in particolare ho fatto la mia prima esperienza importante da attrice al teatro stabile di Torino, ed è stata una lotta quotidiana che credo abbia fatto soffrire molto entrambi. Io non riuscivo a fare quello che lui mi chiedeva ma con il senno di poi credo che fosse una ribellione inconscia alle sue idee di messa in scena. Ho pianto per un mese e lui per un mese ha urlato. Alla fine della prova generale è salito sul palcoscenico a darmi la mano E a farmi i complimenti per l’interpretazione.
"Io esisto. Il mio corpo esiste. Il mondo esiste. Mi tocca sempre" dice una delle due ragazzine durante la TAC, in una scena particolarmente importante sia nel fumetto che nel tuo spettacolo. Personalmente, è stato il momento di maggiore emozione: mi è sembrato di cogliere il cuore dello spettacolo vero e proprio e della generazione - o di un segmento di essa - che vuole raccontare: l'esame clinico come segno della propria esistenza, attestato dai certificati. Il rifiuto della valutazione "istituzionale" – la scuola, la famiglia – e, nel contempo, un affidamento coraggioso e curioso del proprio corpo al mondo esterno.
Ti sembra di aver lavorato in questa direzione?
Certo che ho lavorato in questa direzione. Gli esami clinici che le ragazze affrontano hanno esattamente lo scopo di trovare il riconoscimento di sé e della propria esistenza. Tutta la messa in scena è “a togliere“. Non ci sono luci, scenografie, immagini spettacolari che riempiano gli occhi e che non ci facciano sentire il vuoto. Togliere tutti gli elementi illusori e narcotici del linguaggio teatrale lascia spazio alla storia e alle relazioni. Alla storia del fumetto, alla storia delle ragazze che di volta in volta lo interpretano, alla storia del pubblico. Lascia spazio ai sentimenti e alla possibilità di condividerli. Lascia spazio alle immagini che ognuno di noi ha dentro.
Infine – e per gioco – ci indichi un momento della storia del teatro in cui ti sarebbe piaciuto fare l'attrice e regista?
Mi piace il mio tempo. Sto bene dove sono. In questo presente.