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A place of safety | Uno spettacolo per i pompieri

Clara Fedi

Sono alla replica di Udine de Il Capitale. Un libro che ancora non abbiamo letto. È il febbraio del 2024 quando, nel foyer del CSS, Nicola Borghesi, attore della compagnia Kepler-452 insieme a Enrico Baraldi, con una sigaretta girata tra i denti mi accenna al fatto che il loro successivo spettacolo avrebbe parlato di Mediterraneo e della rotta migratoria che lo attraversa, ancora sapendo poco del progetto e forse anche di cosa succede in quel mare. Si sarebbero imbarcati per un mese in estate sulla nave della ONG tedesca Sea Watch come giornalisti e avrebbero documentato ciò che accade durante le operazioni di salvataggio. Nicola mi era parso perplesso, un po’ teso, un po’ emozionato; io mi ero fermata a parlargli perché avevo l’urgenza di capire come il teatro potesse diventare uno strumento per raccontare l’attualità, anche negli aspetti più paradossali e distanti dalle narrazioni classiche. 


Dei Kepler, nel 2020, avevo visto al Fabbrichino di Prato Il giardino dei ciliegi  30 anni di felicità in comodato d’uso, prodotto da ERT Emilia Romagna Teatro, che univa il dramma di Cechov alla storia di una coppia di anziani bolognesi nei panni dei protagonisti Gaev e Ljuba, in un contesto simile di sfratti e dinamiche di potere nella periferia del capoluogo romagnolo. 

Raccontare storie reali tramite immagini fittizie, scavare nell’attualità fino a trovare esempi di vita che diano un nuovo significato a opere scritte per contesti e urgenze diverse dal presente è diventata, nel tempo, la cifra artistica della compagnia bolognese. 


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Il Capitale. Un libro che ancora non abbiamo letto | Foto di Luca Del Pia

Il Capitale. Un libro che ancora non abbiamo letto, spettacolo del 2024 con in scena i lavoratori del Collettivo di fabbrica GKN Driveline di Campi Bisenzio, parte dalle riflessioni di Karl Marx per analizzare le  dinamiche di lavoro e sfruttamento messe in atto in Italia nel ventunesimo secolo. Il testo del filosofo tedesco si fonde a quello dello spettacolo, in un’opera di scrittura sinergica tra operai e componenti della compagnia che presentano la fabbrica e il lavoro che facevano al suo interno, raccontano i mesi trascorsi, le battaglie vinte, riflettono sul significato della convergenza, ma soprattutto dello stato di precarietà che attraversa ogni settore del lavoro: parlare di GKN Driveline significa parlare della condizione dei lavoratori, e quindi anche degli attori che di lavoro recitano, e anche del pubblico che lavora per andare a teatro.

Ne Il Capitale c’è un altro filo che attraversa lo spettacolo: non la lotta, la convergenza, la politica, ma una domanda: cari amici, parenti, giornalisti, scrittori, politici, studenti, registi, attori: come state? I lavoratori del Collettivo di fabbrica si rivolgono a una pluralità, intendono rendere più efficace e condivisibile la loro campagna e la loro stessa insorgenza.


Quella sera di febbraio, la domanda viene posta anche al pubblico del CSS di Udine, la risposta è nel motto che viene utilizzato dal collettivo e invita il pubblico a una presa di posizione: «Insorgiamo». Così si conclude Il Capitale, come se quella occupazione, quella protesta, potesse essere uno spiraglio di speranza che si apre «nella tenebra di questo momento storico e delle nostre vite», per usare le parole di Nicola Borghesi, seduto sulla scenografia del suo nuovo spettacolo, dentro il Teatro Arena del Sole di Bologna, esattamente un anno dopo, «e che guarda verso un altrove in cui c’è ancora qualcosa di possibile da fare». 


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Manifestazione GKN | Foto di Andrea Sawyerr

Il teatro dei Kepler mi ha sempre interessato un po’ per il loro percorso di ricerca che, fin dall’inizio, ha cercato nelle storie ufficiali delle storie nascoste; un po’ per la poetica dei loro testi, che sono un connubio di drammaturgia, biografie, ricordi, fantasia, analisi critica e ricerca giornalistica; un po’ per l’esplicita presa di posizione politica nello scegliere temi che siano attuali e in controtendenza rispetto alle grandi programmazioni; un po’ per il tentativo di stare scomodi dentro il contesto teatrale, cercando forme di narrazione diverse che possano attirare nuovi interessi e significati; un po’ per il pubblico che portano e che formano a teatro come una comunità costruita attorno agli attori non professionisti  agli esseri umani  sul palco.


Nella platea della sala “Leo de Berardinis” dell’Arena del Sole ci sono probabilmente attivisti e attiviste, antropologi e antropologhe, giornalisti e giornaliste, studenti e studentesse, abbonati, attori di teatro, elettori di sinistra o magari curiosi di destra, spettatori con un passato di migrazione, magari dei figli di seconda generazione, ci sono le maschere e ci sono i pompieri, che nella sala di teatro ci lavorano. A place of safety. Viaggio nel Mediterraneo centrale parla a ognuna di queste categorie e a qualcuna di più. 


A place of safety. Viaggio nel Mediterraneo centrale | Foto di Luca Del Pia
A place of safety. Viaggio nel Mediterraneo centrale | Foto di Luca Del Pia

Lo spettacolo parte proprio da dove ci eravamo lasciati con Nicola: la compagnia ha appena concluso la tournée de Il Capitale, è estate, fa caldo in Sicilia e i Kepler si devono imbarcare. La confusione è la stessa di qualche mese prima: Nicola Borghesi, nel suo monologo iniziale, dichiara che il mare non gli piace, che non gli è mai piaciuto  più avanti descriverà  con dovizia di particolari anche un ricordo legato al pericolo che ha corso una volta, da piccolo, di annegare in piscina – che non gli piace nuotare, che soffre di mal di mare e che se potesse scegliere, forse sceglierebbe di restare a casa, ché le navi lo spaventano, come lo spaventa allontanarsi dalla costa italiana, a maggior ragione se questo significa salpare su una nave diretta verso quella “zona grigia” immersa nell’azzurro chiaro del Mediterraneo, che è la zona del Search and Rescue, confine marittimo tra l’Italia e la Libia in cui le navi delle ONG europee si recano per cercare di salvare chi si sposta su imbarcazioni poco sicure e poco legali dirette dalle coste dell’Africa settentrionale verso l’Europa, spesso mettendo a repentaglio le vite dei loro passeggeri, migranti definiti “irregolari” da leggi europee che legittimano il loro respingimento e le violenze ad esso legate.


Il progetto è ambizioso sotto vari aspetti, partendo dagli attori in scena. Come al solito, sul palco non ci sono dei professionisti, bensì l’equipaggio della Sea-Watch 5: il capo missione (Miguel Duarte), l’elettricista (Josè Ricardo Peña), un’infermiera di Emergency (Floriana Pati), un ex militare della marina in pensione (Flavio Catalano) e la portavoce della Sea-Watch (Giorgia Linardi). Sono molto probabilmente le persone che tecnicamente sanno meglio come funzionano i salvataggi in mare, sono un prezioso forziere di memoria che sul palco dell’Arena del Sole devono diventare testo teatrale. 

Raccontare le migrazioni è complesso, sia per l’oggetto in sé sia, soprattutto, per il metodo. In un momento storico in cui l’attenzione mediatica guarda alle migrazioni seguendo una retorica polarizzata tra “bene” e “male”, “legale” e “illegale”, in cui viene messa in atto una strumentalizzazione politica dell’operato degli attivisti, presentati da un certo elettorato politico come criminali al pari degli scafisti che lucrano sull’illegalità della rotta del Mediterraneo, è difficile astrarsi dai dibattiti attuali e presentare un lavoro in grado di raccontare tali dinamiche rimanendo a una distanza che possa legittimare una narrazione artistica, e anche, penso, una forma di tutela dalla sofferenza messa in scena a ogni replica.

Raccontare le migrazioni, inoltre, viene sottolineato anche nello spettacolo, vuol dire raccontare di persone assenti, ossia farsi carico di una serie di implicazioni etiche nel voler parlare di storie di ingiustizia che non riguardano in primo luogo gli attori e gli attivisti di A place of safety e nemmeno i suoi spettatori.


A place of safety. Viaggio nel Mediterraneo centrale | Foto di Luca Del Pia
A place of safety. Viaggio nel Mediterraneo centrale | Foto di Luca Del Pia

Lo spettacolo parla anche di questo. Dopo la rappresentazione di come funzioni il salvataggio di 156 persone, dopo le riflessioni e le discussioni messe in campo dai vari testimoni, l’unica amara certezza che rimane è che non esista un “luogo sicuro”, che l’unico spazio degno di attribuirsi questo nome è quello occupato dalla barca. Un limbo attraversato dalla tensione tra la salvezza dalla morte e le illusorie aspettative di un’Europa accogliente e sicura. Emblema di questo contrasto, E ti vengo a cercare di Franco Battiato viene fatta risuonare in sala alla fine dello spettacolo - così come alla fine  del viaggio della Sea Watch, poco prima dell’attracco. La canzone continua in loop, si ripete almeno due volte nel momento degli applausi che, come per la fine de Il Capitale, sono fragorosi, entusiastici. Gli spettatori si alzano in piedi, gridano, cantano, c’è chi si asciuga le lacrime, qualcuno urla «Resistere sempre!», ripartono gli applausi mentre gli attori appaiono e scompaiono, escono e ritornano come le onde del mare sulla battigia.


È stato un applauso diverso da quello del CSS e la confessione di un anno fa mi è riecheggiata in testa durante quei lunghi sette minuti di applausi dentro l’Arena del sole.

Il Capitale, così come Il giardino dei ciliegi, sono stati spettacoli in grado di portare nel teatro dinamiche complesse, contraddittorie e tuttavia arricchenti di uno sguardo che tentava di unire l’arte all’esigenza di osservare la realtà, di spiegare – e spiegarsi – la politica attraverso la sperimentazione, svincolandosi dalla responsabilità della linearità e della descrizione del concreto tipica di narrazioni diverse da quella artistica.


A place of safety. Viaggio nel Mediterraneo centrale | Foto di Luca Del Pia
A place of safety. Viaggio nel Mediterraneo centrale | Foto di Luca Del Pia

Se ripartiamo da una definizione di spettacolo come attività concernente il cinema, il teatro, la televisione, e l’insieme delle persone che vi operano, A place of safety è stato a tutti gli effetti uno spettacolo, anche ben fatto vista la scenografia, il copione, le musiche, le luci; ma penso che tutto ciò non si possa ridurre ad una asettica definizione di Treccani. Se consideriamo, invece, la necessità di sospendere la realtà e osservarla da un punto di vista diverso, vediamo come i Kepler si siano limitati a presentare in modo molto prevedibile tematiche estremamente più complesse ed interessanti.

Tutto ciò che mi aspettavo che ci fosse, c’era: la narrazione non ha lasciato spazio a nient’altro se non al dolore. Tutto ciò che mi aspettavo che non ci fosse, non c’era: i migranti. Vari spettatori e articoli hanno sottolineato e approvato la volontà di non portare in scena i migranti, dando adito a quella che stereotipicamente si chiama “spettacolarizzazione del dolore” (o, faziosamente, “la pornografia del dolore”), tema dibattuto, peraltro, anche da Nicola Borghesi, che nello spettacolo ironizza sui giornali che riportano una narrazione spesso vittimistica e violenta al punto giusto per commuovere e sensibilizzare i lettori. La forza di uno spettacolo sulle migrazioni risiede nella possibilità di aprire l’immaginazione a ulteriori sentimenti, forse accogliendo ciò che in un mese di osservazione contribuisce a cambiare la prospettiva su quanto – e su come – viene raccontato delle esperienze di salvataggio, forse riflettendo sul ruolo del teatro dentro quegli spazi. 


Come un giornale che presenta «cosa sta succedendo lungo la rotta migratoria più letale al mondo» (frase ripresa dalla presentazione sul sito dei Kepler), A place of safety, rivolgendosi legittimamente a un grande pubblico, non ha dato nulla per scontato, ha riportato tutti gli orrori incontrati durante il viaggio, ha fatto in modo che i migranti non fossero in scena per evitare incomprensioni, ha creato riconoscimento culturale e saldato la fiducia tra palcoscenico e platea. La narrazione, limpida com’era, si è fatta però univoca, impossibile da scalfire con l’immaginazione per chi di quel dolore non è stato testimone. La descrizione giornalistica dei fatti ha ostruito lo “spiraglio”, l’altrove che il teatro sa evocare. 


A place of safety. Viaggio nel Mediterraneo centrale | Foto di Luca Del Pia
A place of safety. Viaggio nel Mediterraneo centrale | Foto di Luca Del Pia

Se è vero che non esiste un posto sicuro anche solo da immaginare, al suo termine lo spettacolo non avrebbe dovuto essere applaudito per sette minuti, nessuno di noi avrebbe più dovuto pensare che uscire da quella stanza potesse essere possibile o minimamente rincuorante. Forse lo spettacolo avrebbe dovuto essere fischiato, ma non per bruttezza, bensì per lo sconforto, per reale presa di coscienza di quanto compreso, delle storie ascoltate, della responsabilità che ora abbiamo. Quantomeno un silenzio. 

Penso che lo spettacolo non fosse veramente indirizzato alle persone sedute in quella platea. Penso che quegli studenti e studentesse, giornalisti e giornaliste, antropologi e antropologhe, elettori di destra o di sinistra, critici e spettatori dell’Arena del sole non avessero veramente bisogno di uno spettacolo del genere, nonostante il senso di rincuoramento, tanto importante quanto futile, che possiamo aver sentito alla sua conclusione. È divertente immaginare che gli unici veri destinatari di A place of Safety siano stati i pompieri, che si trovavano lì per lavoro, senza averlo deciso, ed è forse solo per loro che questo spettacolo ha avuto un senso, benché  il pompiere che controllava la galleria dietro di me abbia tenuto per tutto il tempo le cuffie.


Non c’è più niente da salvare, dice Nicola Borghesi. A mio parere c’è tutto ciò per cui vale ancora la pena combattere, ma a patto di essere consapevoli che rimarremo comunque delusi, perché chi dovrebbe vedere questo spettacolo, a teatro non ci viene e questa realtà non la vuole guardare. Perché in una dinamica di potere sbilanciata in cui stiamo dando importanza agli ultimi, ai “criminali”, a chi ha ancora meno importanza di noi nel panorama politico, usiamo quella visibilità e quegli spazi come una bolla di consenso per sfogarci, producendo il contrario della complessità. 

A place of safety è stato un esempio di spettacolo che comprende l’urgenza di parlare di temi attuali, ma non si interroga sulla necessità di svincolarsi dalla descrizione del reale, e, per questo, rimane ingessato in una narrazione che avalla il canone e la polarizzazione mediatica, disseminando schiettamente informazioni, ma senza mai immaginare il mare.




Elementi di pregio: La decisione di Kepler di continuare a indagare il presente in cui viviamo, e quindi il futuro verso cui ci muoviamo, attraverso il teatro. La capacità di interrogarsi sugli aspetti più complessi, riflettendo sulla nostra posizione e su quella del teatro, per facilitare la riflessione e lo sguardo critico riguardo a dinamiche polarizzate e complesse. 


Limiti: Si è trattato di uno spettacolo che ha messo tutti d’accordo, decidendo di seguire una narrazione già sondata e che difficilmente ha trasportato gli spettatori in riflessioni più ampie rispetto a quanto quella platea già non sapesse circa il fenomeno della migrazione nel Mediterraneo.



Visto il 01/03/2025 al Teatro Arena del Sole di Bologna

Ideazione Kepler-452

regia e drammaturgia Nicola Borghesi e Enrico Baraldi

con le parole di Flavio Catalano, Miguel Duarte, Giorgia Linardi, Floriana Pati, José Ricardo Peña

con Nicola Borghesi

e Flavio Catalano, Miguel Duarte, Giorgia Linardi, Floriana Pati, José Ricardo Peña

assistente alla regia Roberta Gabriele

scene e costumi Alberto Favretto

disegno luci Maria Domènech

suono e musiche Massimo Carozzi

consulente per il movimento Marta Ciappina

progetto video Enrico Baraldi

consulente alla drammaturgia Dario Salvetti

direttrice di scena Alessia Camera

aiuto macchinista e attrezzista Aura Chiaravalle

capo elettricista Lorenzo Maugeri

tecnico audio Andrea Melega

tecnico video Salvatore Pupù Pulpito

sarta Elena Dal Pozzo

assistente alla regia volontario e video editor Alberto Camanni

scene costruite nel Laboratorio di Scenotecnica di ERT

produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatro Metastasio di Prato, CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, Théâtre des 13 vents CDN Montpellier (Francia)

in collaborazione con Sea-Watch e EMERGENCY

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