Afghanistan è una sfida vertiginosa, folle: spettacolo in due parti (Il Grande Gioco ed Enduring Freedom), dieci capitoli e tre nuclei cronologici. Dieci autori, uno per capitolo. Quasi sei ore di teatro per raccontare un secolo e mezzo di storia del paese: dalla prima guerra anglo-afghana fino ai giorni nostri. Storia di una nazione certamente, ma anzitutto storia dell'immaginazione occidentale che questo paese lo ha creato letteralmente dal nulla, inventandolo e animandolo. E poi stupendosi che questa creazione sfuggisse alla sua rigida fantasia, alla verifica di una realtà inconciliabile e irriducibile. La mappa che Sir Henry Durand pensa come premessa di una modernità inevitabile nel 1842 è una favola, come quella della letteratura occidentale che immagina un Oriente inesistente e lo fa proprio; saranno diverse le conseguenze di queste appropriazioni: se le fantasticherie artistiche sono almeno in parte senza conseguenze, le mappe che gli Stati partoriscono generano guerre senza fine. Abdhur Raman, l'emiro fantoccio messo dagli inglesi a capo di un regime loro vassallo, prova ad avvertirci: «è una specie di magia quella in cui credete, con queste mappe. Vi supplico, non cercate di forzare il mondo in una forma che non può prendere». Il suo appello resterà inascoltato, con le conseguenze che i dieci capitoli dello spettacolo provano a raccontare. Le forme in cui Afghanistan si articola sono varie nello stile e nell'esito: si va dal documentarismo storico degli episodi più didascalici - Trombe alle porte di Jalalabad, Legna per il fuoco - fino all'onirica e straziante sorpresa di due giovani sorelle nell'eccellente Come se quel freddo di Naomi Wallace, probabilmente il punto teatralmente più alto posto a chiusura della lunga narrazione. Miele, con il suo racconto degli ultimi giorni del comandante Massud, e La Linea Durand, con la rievocazione della definizione dei confini del paese, sono invece i momenti di elaborazione intellettuale più fecondi. Se può esistere un teatro di ricerca storica, questo spettacolo prova a incarnarlo, alternando alla recitazione sul palcoscenico videoproiezioni, fotografie e cartelli. La realtà sfugge ai margini, il discorso si fa complesso sotto il proliferare dei fatti e delle interpretazioni: siamo già stati avvertiti della rischiosità di semplificare con mappe artefatte, ma cosa possiamo sperare di concludere da questo infinito serpente di storie e racconti che ci stritola nel suo abbraccio? Quale fine giustifica quali mezzi? In Dalla Parte degli Angeli una ONG prova a scendere a patti con il demonio: se la trattativa con i Talebani per sfamare la popolazione di un piccolo villaggio comporta l'accettazione di usi e costumi inconcepibili in un'ottica universalistica, figlia comunque di una concezione Occidentale, come risolvere il dilemma? Lo spettacolo pone domande, a volte risponde. Ma ogni risposta porta con sé tante altre domande. L'ambizione intellettuale che sta alla base della rappresentazione solo raramente corrisponde ad alti esiti teatrali. La spoglia scenografia e una regia non molto ispirata trasmettono quasi una sensazione di eccessiva amatorialità nei primi episodi de Il Grande Gioco. Il dubbio sull'autenticità afghana di alcuni costumi e musiche potrebbe in un ragionamento extra-testuale quasi validare la tesi di partenza sulla impossibilità di comprendere una cultura altra e agire su essa, pur nel più nobile impegno; ma qui il messaggio invece è semplicemente di sbavatura e di mezzi che non corrispondono alle intenzioni. Negli episodi più curati e nei momenti in cui la recitazione si fa più sentita gli esiti sono migliori e decisamente convincenti; resta il dubbio di fondo sul fatto che una maggiore compattezza avrebbe forse aiutato a concentrare le forze.
Una menzione particolare va alla recitazione di Emilia Scarpati Fanetti e Michele Costabile in Come se quel Freddo, pièce che si differenzia per toni e stile dalle altre, esplorando in modo più suggestivo e intimista il prezzo da pagare per l'interventismo occidentale. Nel complesso di Enduring Freedom probabilmente la maggiore varietà di registri consente un dispiegarsi più convincente della macchina teatrale; il fatto che permanga una ispirazione comune di fondo alla messinscena, grazie a scenografia e regia sostanzialmente simili, crea un effetto di lucida coerenza nel discorso di Afghanistan. Pretendere che uno spettacolo teatrale - seppur ambizioso e proteiforme come questo - riesca a rispondere alla domanda sottostante su cosa sia il colonialismo (culturale e non), di come e se si possa da una cultura conoscerne e accoglierne veramente un'altra, anche con le migliori intenzioni, è probabilmente troppo. Il fatto di riuscire a porla è già un successo degno di nota. Elementi di pregio: l'ambizioso programma di illuminazione delle complessità storiche e culturali. Limiti: peccando per eccesso, alcuni capitoli non reggono il confronto qualitativo con il resto.
Visto domenica 18 novembre 2018 Teatro Elfo Puccini, Milano. Afghanistan: il grande gioco di Lee Blessing, David Greig, Ron Hutchinson, Stephen Jeffreys, Joy Wilkinson Afghanistan: enduring freedom di Richard Bean, Ben Ockrent, Simon Stephens, Colin Teevan, Naomi Wallace traduzione Lucio De Capitani regia di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani scene e costumi Carlo Sala video Francesco Frongia luci Nando Frigerio suono Giuseppe Marzoli con Claudia Coli, Michele Costabile, Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Fabrizio Matteini, Michele Radice, Emilia Scarpati Fanetti, Massimo Somaglino, Hossein Taheri, Giulia Viana assistente alla regia Giovanna Guida assistente scene e costumi Roberta Monopoli produzione Teatro dell'Elfo ed Emilia Romagna Teatro Fondazione in collaborazione con Napoli Teatro Festival con il sostegno di Fondazione Cariplo
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