È l’autunno del 2022 e Josep Borell, Alto rappresentante dell’Unione Europea per la politica estera, si trova a Bruges, invitato a tenere un discorso inaugurale per l’Accademia Diplomatica Europea. Si tratta di un’orazione articolata, nella quale il futuro della UE sembra essere totalmente vincolato alla necessità di supportare l’Ucraina vittima dell’aggressione russa (una campagna che il funzionario di origine catalana, tutt’oggi in carica, continua a cavalcare senza sosta). È però una metafora in particolare quella che colpisce l'attenzione degli organi di informazione, che la riportano con enfasi, evidenziandone il messaggio quantomeno ambiguo.
«Bruges, è un buon esempio di un giardino Europeo. Sì, l’Europa è un giardino. Abbiamo costruito un giardino. Tutto funziona. È la migliore combinazione di libertà politica, prosperità economica e coesione sociale che l’umanità sia mai stata in grado di costruire – le tre cose insieme. E qui, Bruges è forse una buona rappresentazione di cose bellissime, vita intellettuale, benessere.
Il resto del mondo – e tu lo sai molto bene, Federica [Mogherini, all’epoca rettrice del Collegio d’Europa, ndr] – non è esattamente un giardino. La maggior parte del resto del mondo è una giungla e la giungla può invadere il giardino. I giardinieri dovrebbero prendersene cura, ma non proteggeranno il giardino costruendo muri. Un piccolo bel giardino circondato da alte mura per prevenire l’arrivo della giungla: non sembra essere una buona soluzione. Perché la giungla ha una capacità di crescita enorme, e il muro non sarà mai alto abbastanza per proteggere il giardino.
I giardinieri devono andare nella giungla. Gli Europei devono impegnarsi di più con il resto del mondo. Altrimenti, il resto del mondo ci invaderà, in modi e con mezzi diversi.»
Pur inserito in un discorso in cui non mancano inviti a scongiurare derive neo-colonialiste o a definire il progetto europeo come auspicabilmente basato su una integrazione di differenti identità, “in order to make [it] possible to live together, not in a confrontational way.”, l’immagine del giardino circondato da una non meglio definita giungla predomina sull’immaginario complessivo del suo intervento. Si presta, anzi, a incarnare, nella migliore delle ipotesi, un irrimediabile lapsus di come l’Unione Europea interpreti (nei fatti e, qui, anche nei principi) il suo rapporto con ciò che Europa non è. E di come, per Borell e molti altri che la pensano come lui, ciò che arriva dall’esterno sia, innanzitutto, da considerare un pericolo per la tenuta delle istituzioni, che sono ‘la cosa più importante per la qualità della vita delle persone’, oltre che la più grande differenza tra l’Europa e il resto del mondo, tra il giardino e la giungla.
Ho pensato immediatamente a questo discorso, quando ho visto la scena della recente creazione della performer e coreografa Phia Ménard, Art. 13 (anno di produzione 2023) presso l’Opéra Comédie di Montpellier. Soprattutto per via della scenografia, concepita dalla stessa artista – con la collaborazione di Clarisse Delile e Éric Soyer – costituita interamente da un giardino con un tappeto d’erba e siepi perfettamente potate, a dettarne la geometria, ma anche i confini.
Al centro, la statua di un nudo maschile in piedi in atto eroico troneggia sul suo piedistallo, mentre distesa sull’erba, immersa in un incalzante frastuono di tagliaerba, si offre alla nostra vista il corpo della danzatrice Marion Blondeau, il cui volto è celato dalla maschera di una bizzarra creatura acquatica. Giardino [ordine, geometria, ma anche uno dei segni distintivi dell’Europa moderna], corpo di donna-pesce [creatura anfibia, sfuggente, adattabile], statua [corpo condannato a ripetere l’azione in cui è immortalato, come si dice a imperitura memoria]: in questo triangolo si insinua un gioco di varianti, animato da un incessante movimento, quello portato dal corpo di Blondeau, straordinariamente vivo, elettrico, creativo, mobile senza prendere un respiro.
Nella coreografia della danzatrice, coesistono da una parte temi che potremmo accostare all'idea di Giardino, tópos peraltro della tradizione europea, come gli accenni di danza classica o le improvvise posture dettate dalla memoria della commedia dell'arte; dall'altra, all'opposto, si manifestano gesti rabbiosi, banali, buttati via, in grado di esprimere la negazione di ogni repertorio – per esempio lo scalciare animalesco e ribelle sulla ghiaia, cancellandone il disegno predefinito. Il tutto fluisce senza schematismi, incessantemente, attraverso la sua gestualità densa.
Ma soprattutto, la creatura che abita questo dispositivo ha i tratti inconfondibili dell’infanzia, furiosa e ostinata quando si tratta di abbattere la statua, fantasiosa e irresistibile quando costruisce un percorso composto dalle pietre del monumento appena abbattuto. È l’infanzia – evidentemente non completamente riconosciuta come umana – che nasce e si ritrova già nel giardino, dove i giardinieri sono all’opera, sordi e assordanti. Qui la creatura bambina cerca di costruire il suo habitat, in un luogo in cui la storia è già stata scritta, approvata, pietrificata, imposta. Qui, nel Giardino, ogni atto riconosciuto come estraneo viene punito con una imposizione ancora più grande, una memoria ancora più ingombrante, talmente enorme e insostenibile che nemmeno riesce a essere contenuta dalla scena. Una nuova statua cala dall’alto sulle ceneri della vecchia, ma le sue dimensioni sono centuplicate, al punto che i nostri occhi riescono a vederne solo i grandi piedi nudi maschili sul piedistallo. Non serve altro per immaginare quale sia l’eroismo che vuole ricordare.
E quasi risuona didascalico, in questo ambiente già fortemente connotato – simbolico sì, ma al punto da diventare letterale, trasparente – il dettaglio del pupazzo di pezza, oggetto feticcio dell’infanzia, schiacciato sotto il peso della statua gigante: non serve, penso, il bambino-pesce c’è già, c’è già tutto quello che serve per immaginare. E invece, questo segno apparentemente troppo carico diventa un elemento drammaturgico fondamentale, perché Blondeau aspira a un altro tentativo di abbattere la statua, di sfuggire alle tentazioni conformiste del giardino, a un’altra infanzia cioè.
Svuotare il piedistallo, sfidarne la sua apparenza solida, scivolare tra le sue crepe, come in un grande mare denso, sbucare all’improvviso da altri luoghi, altri spazi temporali: il piano della creatura è quello di accedere a un altrove inimmaginabile, un aldilà, che il lavoro visuale di Phia Ménard rivela in una concentrazione di piccole luci proiettate, flebili e intermittenti come lucciole, che ci conducono nella materia impalpabile del corpo della danzatrice, fino a vederla sparire, nell’universo di questo artificio.
La trasparenza del suo progetto politico si basa su due cartelli, posti uno all’inizio e uno alla fine dello spettacolo. Sul primo, campeggia il nome di Alan Kurdi, il piccolo siriano di 3 anni ritrovato morto sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, e restituito esanime al mondo in un’immagine impossibile da dimenticare; sul secondo un enorme No alla Legge sull’Immigrazione – norma recentemente approvata dal nuovo corso macroniano particolarmente spostato a destra, considerata tra le più aspre e ostili di tutta l’Unione Europea – si lascia srotolare in bella vista davanti al pubblico dell’Opéra Comédie di Montpellier.
Art. 13 di Phia Ménard coniuga rabbia e lucidità in un progetto artistico difficile e solo apparentemente glaciale – nel quale probabilmente riverbera ancora il fascino della sua potente trilogia Contes Immoraux (del quale ho assistito, incantato, al solo Maison Mère) – e costruisce con empatia e senza alcuna retorica una tragica parabola danzata, dichiaratamente racchiusa tra due parentesi, strappate con dolore dalle pagine della cronaca: una che, riprendendo il discorso di Borell, proviene dai confini con la Giungla, e che ha smesso di respirare davanti a noi, l’altra raccolta nel fragile quotidiano di una politica che, in Francia come altrove, sintonizza la sinistra liturgia dei cosiddetti valori dell’occidente con l’avvento di nuovi e vecchi fascismi, perfettamente a loro agio, ormai, nel cuore del Giardino.
Art. 13
Compagnie Non Nova – Phia Ménard
Idée originale, mise en scène, écriture et scénographie Phia Ménard
Assistante à la mise en scène Clarisse Delile
Interprétation et chorégraphie Marion Blondeau
Dramaturgie Camille Louis
Scénographie Phia Ménard, Clarisse Delile et Éric Soyer
Création sonore Ivan Roussel
Création costumes Fabrice Ilia Leroy assisté de Yolène Guais
Création lumière Eric Soyer assisté de Gwendal Malard
Réalisation scénographie Rodolphe Thibaud, Ludovic Losquin, David Leblanc, Nicolas Marchand
Régie plateau David Leblanc, Nicolas Marchand
Photographies Christophe Raynaud de Lage
Stagiaires Ayoub Kallouchi (mise en scène), Vanessa Schonwald (scénographie)
Régie générale Olivier Gicquiaud
Régie lumière Aliénor Lebert
Co-directrice, administratrice et chargée de diffusion Claire Massonnet
Assistante d’administration et de production Constance Winckler
Chargée de communication et de production Justine Lasserrade
Coproduction Biennale de la danse de Lyon 2023, TANDEM, Scène nationale, Hippodrome de Douai, Le TNB, Centre Européen Théâtral et Chorégraphique de Rennes, Les Quinconces– L’Espal, Scène nationale du Mans, Malraux Scène nationale Chambéry–Savoie, Les 2 Scènes scène nationale de Besançon, La Comédie de Clermont-Ferrand scène nationale, Le Volcan, Scène Nationale du Havre, Les Halles de Schaerbeek – Bruxelles, La Comédie de Valence, CND Drôme-Ardèche, le Lieu Unique, centre de cultures contemporaines de Nantes, DE SINGEL, Centre Artistique International – Antwerpen, MC93 – maison de la culture de Seine-Saint-Denis à Bobigny, Le Centre chorégraphique national d’Orléans
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