La lingua italiana, con la sua abitudine a generare dalla stessa radice termini dalle accezioni spesso diversissime, è stata poco benevola con la parola 'critica'. Al suo verbo, criticare, è associata una certa dose di antipatia, e, volendo sfuggire a questa sottintesa ostilità, si è costretti a ricorrere ad aggettivi forse non meno antipatici, finendo ad esempio per “muovere critiche costruttive”, suggerendo quindi una naturale inclinazione della critica alla distruttività.
Le radici della parola però affondano in un terreno certamente non distruttivo - e tutt’altro che metaforico: κρὶνω, in greco, indicava infatti l’azione di dividere il grano dalla paglia, separando i chicchi dalla pula.
È a questo significato che cerco di fare riferimento ogni volta che mi trovo a esprimere un pensiero critico nei confronti di un’opera teatrale: distinguere ciò che è “nutrimento” da ciò che non lo è, riconoscere l’essenza in mezzo a quello che è sterile o superfluo.
È un processo, questo, che richiede la volontà di porsi continue domande, chiedendosi di fatto, in forme sempre diverse, “Qual è il grano qui? Quale la paglia?”.
Per questo credo che i luoghi dove il teatro è più vivo e la critica più fertile siano quelli dove gli interrogativi fioriscono con più libertà. Uno di questi luoghi, da me colpevolmente scoperto solo quest’estate, è sicuramente il Teatro Sociale di Gualtieri (provincia di Reggio Emilia): partita come componente della Giuria Critica per la quinta edizione del festival Direction Under 30 (20-22 luglio 2018), sul treno del ritorno ho faticato a contenere tutte le domande germogliate nella “tre giorni” reggiana.
Durante gli incontri fra giurie ci si è chiesto, ad esempio, quale sia il confine tra essere “spettatori di pancia” e “spettatori analitici”: se sia meglio sentire piuttosto che analizzare, esprimere emotività più che giudizi, oppure scomporre, concentrarsi sulle componenti tecniche e sugli aspetti formali del teatro. Durante gli incontri con gli attori, invece, si è parlato molto di quale linguaggio possa dirsi teatrale, con quali differenze da quello cinematografico o televisivo, in quale momento intervenga il patto con lo spettatore e con quanta forza nei diversi registri gli si chieda di sospendere l’incredulità. E, infine, quanto è grande lo spazio in cui la sensazione può convivere con il pensiero, il cinema con la letteratura?
Da ogni incontro scaturiscono nuove domande, e ad ogni domanda si setacciano le parole in una trebbiatura meticolosa e collettiva.
È il destino del Teatro, forse, quello di muovere le persone in gruppo su confini fluidi e soglie critiche, appunto, alla ricerca del grano. E se è vero, come sosteneva Primo Levi, che separare, pesare e distinguere sono i tre più utili esercizi che la scienza possa prestare a chi scrive, non resta ai critici che continuare a porsi domande, osservare da vicino e becchettare - come oche - tra i cereali.
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