Dopo aver assistito al Commento al Vangelo di Giovanni (Expositio Sancti Evangelii secundum Iohannem) di Meister Eckhart, progetto speciale dell'Archivio Storico della Biennale di Venezia andato in scena dal 5 al 9 e dall'11 al 15 marzo al Portego delle Colonne della Scuola Grande di San Marco a Venezia, mi si è affacciata alla mente una folla di suggestioni e domande, e considerato che una recensione secondo le regole l'ho già scritta su altra testata, in questo appassionato laboratorio critico proverò a seguire l'impulso e a saltar di balza in balza e vediamo insieme dove si arriva, sempre che un testo o un opera d’arte debbano condurci da qualche parte.
In principium erat Verbum

Il 29 agosto 1952 al Maverick Concert Hall di Woodstock, New York, andò in scena una delle performance più folgoranti e divisive del Novecento: 4'33” di John Cage. David Tudor, iconico e geniale pianista dell'avanguardia musicale americana, entrò in scena, sedendosi al pianoforte, poggiò sul leggio la partitura, sistemò lo sgabello, si concentrò e infine alzò il coperchio. Nessun suono per 30” se non il vento tra gli alberi e le prime gocce di pioggia sul tetto. Nessun movimento se non per la pagina voltata dello spartito. Poi improvvisamente Tudor chiuse e riaprì lo strumento e per 2' e 23” ancora silenzio e il girare delle pagine. Per la seconda volta Tudor chiuse e riaprì il coperchio. In sala, i primi sussurri, trapestio, tossi nervose. Passano ancora 1' e 40”. Altre pagine voltate, poi la chiusura definitiva del coperchio. Tudor si alzò e volgendosi al pubblico si inchinò con eleganza. Subito partirono bordate di fischi, urla, insulti, qualcuno gridò persino al capolavoro. Niente era accaduto, tutto era successo.
Non fosse stato per il silenzio, si era assistito a una classica sonata per pianoforte in tre movimenti. La novità consisteva nell'essere composta senza note musicali. Per la prima volta nella storia della musica il silenzio non era una pausa espressiva o un ponte tra due suoni. Valeva per sé. E, nonostante la sua invadente presenza sulla scena, il silenzio paradossalmente dimostrava la sua inesistenza. Il suono assente non palesava l'assenza di suono, ma la scomparsa della volontà di eseguirne. Il vento come il tossicchiare, lo stropiccio delle carte di caramella o il ticchettare della pioggia erano (e sono) suoni non intenzionali, ma sono anche il tessuto del mondo, quello che pur non percepito è onnipresente. Cage fece ascoltare al pubblico la voce nascosta della creazione: 4'33”, in origine, avrebbe dovuto chiamarsi Silent Prayer, preghiera silenziosa.
Perché pensare a Cage durante un moderno oratorio su un testo esegetico di Meister Eckhart? Cage era un fervido lettore di Meister Eckhart e nelle sue numerose interviste spesso citava i suoi testi. Infatti nel Commento al Vangelo di Giovanni il mistico tedesco, usando un linguaggio aderente alle modalità di dimostrazione filosofica della scolastica, parlando del Verbo in verità intende il silenzio che è la vera sorgente della Parola.
In principio era il Verbo, ma il Verbo non è il principio. Esso scaturisce dal silenzio: «Risplende nelle tenebre, ovvero nel silenzio e nella pace, lontano dal tumulto delle creature». Il Verbo nasce, insomma, dal suo contrario, non avrebbe sostanza senza il suo opposto, perché: «Dio e lo spirito sono al di sopra dei contrari». Cage scriveva nella sua Conference on Nothing: «quello che chiediamo è il silenzio, ma quel che richiede il silenzio è che io seguiti a parlare».
Il silenzio di Cage e quello di Eckhart sono strettamente imparentati. Sono potenti perché sono Nulla, non sono determinati, non hanno confini. Entrambi appaiono quando l'Io dell'uomo svanisce, si sottrae. Scrive Eckhart: «nella misura in cui non sei niente in te stesso, nella stessa misura sei tutte le cose, e non esiste separazione tra te e le cose. Perciò, nella misura in cui non sei separato da tutte le cose, in questa misura sei Dio e tutte le cose».
Cage dichiarò in un'intervista con il musicista William Duckworth: «Quando scrivo un pezzo, cerco di farlo in modo che non vada a interrompere quest'altro pezzo che sta già continuando» intendendo il suono del mondo. La composizione era tutt'uno con i suoni del silenzio perché non aveva volontà né motivazione, non era altro che imitazione della natura nel suo modo di operare. Il silenzio di Cage, come quello di Eckhart, è come la rosa di Angelus Silesius: «senza un perché, fiorisce perché fiorisce. Non bada a sé. Non chiede se la guardi».
Zittire se stessi, quell'io che è una folla vociante e assillante, era presupposto fondamentale per l'apparire delle parola anche per Carmelo Bene. Essere attore o piuttosto macchina attoriale consisteva non nel parlare ma nell'essere parlati. Bisognava farsi attraversare dal Verbo, sottrarsi per far apparire. Meister Eckhart diceva che per sentire la voce di Dio l'uomo deve venir meno nella sua alterità, deve fare il vuoto di tutto ciò che è individualità. Nel sermone Dum medium silentium dice : «la cosa migliore e più nobile […] è tacere, e lasciar parlare ed operare Dio».
Et Verbum caro factum est

Come si è detto, in principio era il Verbo, ma scopriamo con Echkart che il Verbo non è il principio. Un po’ come quando Mejerchol'd diceva prima il suolo e la parola alla fine, intendendo che la realtà della scena non solo viene prima della parola ma la determina. E quindi: quando il Verbo giunge a farsi carne? Questa non è una questione di lana caprina, ma è la chiave di volta, non solo per il pensiero religioso, ma persino per il teatro. Il Verbo o la Parola, quando diventa corpo nel mondo discendendo dal mondo dello Spirito, rischia di corrompersi divenendo oggetto, una mera semplice rappresentazione di Dio. Eckhart tra le molte tesi che misero in allerta la Chiesa e lo portarono a difendersi in un processo per eresia, sosteneva che pregare è attività futile. Dio non risponde alle preghiere perché il Dio che si prega non è Dio, ma una semplice rappresentazione. Il Dio nascosto è sordo e appare alle sue creature solo quando si fa tacere tutto il resto. Egli appare in quel luogo oscuro che è il fondo dell'animo, un fondo senza fondo, dove si può solo lasciarsi cadere senza mai toccare il suolo.
Il Verbo per Eckhart è come l'idea di Platone, si congiunge con la carne ma non partecipa della sua natura: «la causa prima regge tutte le cose senza mescolarsi ad esse». Ma la parola non è solo idea nella purezza dello spirito, è anche rappresentazione della cosa nel mondo ed è quindi corruttibile. In questa sua seconda accezione l'uomo nobile si deve distaccare da ogni attaccamento d'amore alla parola per ritrovarne lo spirito, abbandonare l'illusione della carne per la realtà dello spirito. Come nel buddhismo Chan o Zen, molto amato da John Cage, se la questione è l’attaccamento, rimuovine le cause: se incontri il Buddha, uccidilo! Problema che si può traslare sulle assi di ogni palcoscenico: per rendere la potenza di un testo, devo per forza esserne fedele o aderente? Oppure lo farei risplendere di più fulgida luce se mi lanciassi in un’azione iconoclasta?
Scrive ancora il maestro di Erfurt: «Dio ti deve toccare con la sua semplice essenza, senza la mediazione di nessuna immagine». La rappresentazione o come sfuggire alla rappresentazione è un tema che coinvolge anche il teatro. Come si esce dal rappresentare? Quando una parola è detta e non recitata, o un'azione è in sé stessa, senza farsi simulacro, e non rimanda ad altro da sé? Su questo paradosso si sono lambiccati i cervelli di fior di teatranti. Pensiamo ad Artaud e al suo doppio, che sempre appare pur cercando di esorcizzarlo, o a Grotowski e alla sua fuga al di là dello spettacolo. Oppure ancora a François Tanguy il cui attore era sempre tramite senza mai essere interprete di un personaggio. Ma un paradosso è tale, perché non ha soluzione. I fallimenti sulla via sono invece illuminanti.
Anche Eckhart sembra aver percorso questo sentiero quando scrive, sempre nel sermone Dum medium silentium, quasi anticipando di molti secoli Carmelo Bene o John Cage: « […] l'uomo si spogli e si liberi di ogni pensiero, parola e opera, e di ogni rappresentazione, e si mantenga completamente in passività di fronte a Dio, inattivo, lasciando che Dio operi in lui».
Lasciarsi agire, lasciarsi parlare, senza voler dire a tutti i costi. Eppure oggi come ieri sembra essere più importante il discorso rispetto al canto, il primo con i suoi messaggi palesi o subliminali rivolti al pubblico mai lasciato alla propria autonomia d’ascolto, preso per mano come un bambino incapace di intendere e di volere; e il secondo libero, come quello di Battisti o come di chi canta sotto la doccia. Il pubblico non è solo quello a teatro, oggi è chiunque, visto che ognuno di noi si rivolge al mondo con infiniti messaggi. Oggi tutti siamo afflitti dal comprendere e dal riferire. Bisogna comunicare nell'era della comunicazione che non comunica nulla. Il mondo è solo uno scorrere infinito di dati, video e parole. Non ci si sofferma quasi più a contemplare, magari solo il suono o l'atmosfera. Subito si sfodera il telefonino, si scattano foto, si immortala il momento, si registrano le voci che poi subito dimentichiamo. Il silenzio, la sottrazione di sé, l'abbandono, il distacco, tutte le caratteristiche che abbracciava Meister Eckhart, e una agguerrita minoranza del teatro innovativo negli ultimi centocinquant'anni, sembrano parole new age, di proprietà degli ultimi fricchettoni, di nostalgici veterotestamentari. Il silenzio, l'ascolto è diventata arte tra le più difficili nel costante parlottio da sala aeroportuale che ci accompagna in ogni istante.
Lux in tenebris lucet
Nel Commento al Vangelo di Giovanni Eckhart si sofferma a riflettere sulle parole dell’evangelista: «la luce risplende nelle tenebre, ma le tenebre non la compresero». Nell'ascoltare queste parole mi sono venute alla mente le considerazioni di Giorgio Agamben sulla contemporaneità. Anch'egli riflette su tenebre e luce in relazione all'essere o meno contemporaneo. Cosa significa questa parola? Per Agamben “contemporaneo” è colui il quale non è completamente aderente al suo tempo, né soddisfa pienamente alle sue pretese. Può comprendere il contemporaneo solo chi si pone a una certa distanza. É come in Tempo fuor di sesto di Philip K. Dick. Il protagonista Ragle Gumm si accorge di vivere in una simulazione proprio perché nota le incongruenze astraendosi dal flusso del tempo quotidiano.
Agamben procedendo nel suo ragionamento scrive: «contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo sul suo tempo, per percepire non le luci, ma il buio». Forse, ancora una volta, si pone l'età dell'oro nel passato e nel sol dell'avvenire? Niente di tutto questo. Il buio, o le tenebre se assumiamo il termine evangelico, non sono prive di luce, la attendono. Nello spazio profondo vediamo più oscurità che lumi perché la velocità della luce compete con la fuga delle galassie. Ci si allontana prima che la luce possa giungere. È qui che si gioca l'essere contemporanei secondo Agamben: «Percepire nel buio del presente questa luce che cerca di raggiungerci e non può farlo, questo significa essere contemporanei. Per questo i contemporanei sono rari. E per questo essere contemporanei è, innanzitutto, una questione di coraggio».
Il coraggio di non aderire al proprio tempo, questa è la luce che non è stata compresa dalle tenebre. Non è stata soffocata prima ancora di essere giunta. Non è stata spenta prima di divampare. Contemporaneo è colui che si assume l'onere che fu di Giovanni il Battista, testimoniare della luce, senza essere la luce. Quale miglior missione per il teatro oggi in tempi di guerra? Non può non venire in mente a conclusione di queste rapsodiche riflessioni l'invito di Calvino ne Le città invisibili a: «Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio ». Et lux in tenebris lucet.
Visto il 5 marzo 2025 a Venezia, Portego delle colonne, Scuola Grande di San Marco
Expositio Sancti Evangelii secundum Iohannem di Meister Eckhart Progetto Speciale dell’Archivio Storico della Biennale di Venezia regia e drammaturgia Antonello Pocetti voci recitanti Federica Fracassi, Leda Kreider, Dario Aita Coro della Cappella Marciana, direzione M° Marco Gemmani scene Antonino Viola video Andrew Quinn luci Tommaso Zappon musica e proiezione del suono Thierry Coduys grafica Studio Leonardo Sonnoli produzione La Biennale di Venezia
Le prime cinque serate sono state introdotte da: 5 marzo Cardinale José Tolentino de Mendonça Logos 6 marzo Peter Sloterdjik Essere 7 marzo Cristiana Collu Amore 8 marzo Monica Centanni Bene/Male 9 marzo Monsignor Francesco Moraglia Anima/Corpo
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