Nelle prime righe de L’insostenibile leggerezza dell’essere, Kundera scrive che se Robespierre tornasse eternamente a tagliare la testa ai francesi - privando così lo spargimento di sangue della sua unicità - sarebbe molto più difficile assolverlo: nel momento in cui gli eventi si ripetono, essi ci appaiono infatti privi della circostanza attenuante della loro fugacità.
In questo modo si spiega forse la foga con cui i protagonisti di Copenaghen si ostinano a ripetere la stessa storia, mettendola in scena in più versioni, una diversa dall’altra eppure convergenti: l’insistente ricerca della verità nasconde il sintomo di una responsabilità ineludibile, della consapevolezza di non poter essere assolti.
«No, non è andata così. Proviamoci ancora: perché quel giorno di settembre del 1941 sei venuto qui a Copenaghen, Heisenberg?»
Niels Bohr e Werner Heisenberg: due fisici che hanno rivoluzionato non solo la scienza ma la storia dell’umanità e le cui scoperte scientifiche si integrano armoniosamente con profonde intuizioni filosofiche, in un gioco riflettente in cui il micro rispecchia il macro e viceversa. Questo suggestivo panorama intellettuale viene rivissuto sul palco del Teatro Duse dove Heisenberg, Bohr e Margarete, moglie di quest’ultimo, si confrontano su diversi piani esistenziali: i due si parlano e si riconoscono come scienziati, ma sono al tempo stesso quasi un padre e un figlio, stretti in un abbraccio o in una discussione intima; sono amici competitivi o nemici colmi di ammirazione l’uno per l’altro? Come l’identità delle particelle elementari che costituiscono il mondo, o il gatto di Schrödinger vivo e morto allo stesso tempo, così anche l’identità dei due protagonisti rimane mutaforme, impossibile da fissare o definire nella sua integrità. D’altronde, è proprio questo che rivela il principio di indeterminazione di Heisenberg: è impossibile definire contemporaneamente la posizione e la velocità di una particella. Il mondo, con Heisenberg, si frantuma in mille pezzi i cui movimenti sono impredicibili: sei e quindi non sai; sai e quindi non sei, riassumerà brillantemente la profana ma acuta Margarete, spettatrice attiva della vicenda, inconsapevole tramite e filtro per noi, il pubblico-umanità (il micro si riflette nel macro, ricordate?).
Eppure l’ossessione di Bohr - emulgatore del principio di complementarità e padre fondatore della meccanica quantistica con lo stesso Heisenberg - è capire il perchè di quella lontana visita in una Danimarca invasa dalla Germania nazista e patria dell’amato allievo, che per essa ora lavora. A cosa? Immancabilmente, i sospetti che entrambi nutrono reciprocamente convergono sulle elaborazioni teoriche e sperimentali riguardanti la fissione nucleare: la bomba è già lì, tra loro, pronta ad esplodere. Timori etici, dubbi morali, invidie e prese di posizioni politiche deflagrano in un confronto che rimane misterioso, con Bohr al servizio “spirituale” degli Alleati e Heisenberg costretto alle dipendenze di Hitler. La giustizia dell’agire di un essere umano, l’affanno di uno scienziato bramoso di nuove scoperte e le ombreggiature di una politica che sa cosa chiedere e ottenere dalla sua intellighenzia scientifica - celebrando così la nascita della big science - vengono tutte fatalmente resuscitate insieme ai protagonisti, creando così un’opera poliedrica, un cerbero letterario e scenico che è il trionfo di una drammaturgia densa, mordace e incalzante firmata da Michael Frayn e magistralmente gestita dai tre interpreti.
Copenaghen è uno spettacolo lucido, tagliente, “atomico” nel suo significato etimologico di non riducibile, essenziale. E nella regia di Mauro Avogadro la scena si presenta proprio come un atomo, strutturata a semicerchi concentrici su cui orbitano i tre protagonisti, elettroni attratti da un nucleo invisibile che non raggiungono mai; il ritmo serrato delle battute è una rincorsa verbale necessaria ma inutile verso una verità che non è possibile determinare, una colpa difficilmente attribuibile.
Oggi sappiamo che il modello atomico di Bohr era impreciso, gli elettroni non corrono su traiettorie circolari ben definite ma possono trovarsi in ogni punto dello spazio sferico intorno al nucleo: il confine tra scienza ed etica, giustizia e politica assomiglia sempre meno a una linea, si è fatto invece ancor più puntiforme, inafferrabile.
Elementi di pregio: la scenografia, costruita su piani obliqui, e le videoproiezioni che rompono la staticità della scena; la tenace bravura degli interpreti.
Limiti: la conoscenza solo superficiale dei personaggi e della fisica preclude forse la comprensione totale a una parte del pubblico, per la quale lo spettacolo può apparire come una successione di dialoghi nevrotici, a causa del ritmo serrato e del contenuto fortemente dettagliato.
Visto il 15 marzo 2018 al Teatro Duse.
Produzione: Compagnia Umberto Orsini, Teatro di Roma, in coproduzione con CSS Teatro Stabile di Innovazione del FVG
Regia: Mauro Avogadro
Interpreti: Umberto Orsini, Massimo Popolizio, Giuliana Lojodice
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