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Anna Scagnol

Fantozzi. Una tragedia | La maschera surgelata


 Gianni Fantoni è stato uno degli imitatori che più ha attraversato la rampante galassia Mediaset degli anni Novanta, vestendo variamente i panni di figure come Zucchero, Pavarotti, Pino Daniele, Maurizio Costanzo, ma, soprattutto, Ugo Fantozzi. C’è una puntata di La sai l’ultima? del 1993 che lo ritrae mentre, nei panni del ragioniere, tenta di acquistare una scatola di preservativi su ordine del Megadirettore Galattico (Antonio Covatta), inserendo all’interno di una scrittura inedita alcuni caratteri tipici della maschera fantozziana, ossia la sottomissione al potere, il debole revanscismo, la demonizzazione del sesso (e del sesso protetto, in questo caso particolare). Diversi anni fa, Fantoni ha ottenuto da Paolo Villaggio i diritti del personaggio Fantozzi per coronare il progetto di allestire un musical su di lui. Il libro Operazione Fantozzi (2023) illumina le varie fasi di questo faticoso processo produttivo, per concludersi con l’accordo stipulato con il Teatro Nazionale di Genova e il suo direttore, Davide Livermore.



FantozziUna tragediaDonatoAcquaro
Fantozzi. Una tragedia | Foto di Donato Acquaro

 

Le premesse di Fantozzi. Una tragedianon un musical, ma uno spettacolo in prosa per la regia di Livermore stesso – risiedono nelle parole che il Megadirettore Galattico (Marcello Gravina) rivolge a Fantozzi (Fantoni) dopo pochi minuti dall’inizio dello spettacolo: «Lei è una maschera, Fantozzi, non appartiene a se stesso, è di tutti. È nostro». La maschera creata da Villaggio, come effettivamente accadeva a quelle della Commedia dell’arte, plasmate dai loro stessi interpreti, viene dichiarata patrimonio di tutti, potenzialmente aperta a ogni interpretazione, lettura e deformazione. La battuta è inserita in una delle numerose interruzioni che intendono, innanzitutto, informare il pubblico di essere davanti a una rappresentazione basata non sui film, ma sui romanzi di Paolo Villaggio, e, in secondo luogo, sottolineare, nonostante i numerose rimandi cinematografici, la natura squisitamente teatrale dello spettacolo.

Escusatio non petita

 

In effetti, sono numerosi i costumi o i passaggi tratti pedissequamente dai film, come l’abito rosso della Signorina Silvani (Lorenzo Maria Fontana), l’autobus “al volo”, lo scambio tennistico con Filini e il “batti lei”, o il biliardo con l’Onorevole Catellani che termina con il trionfo del ragioniere e non, come nel libro, con la devastazione dell’arredamento e della dentatura del padrone di casa. Il pubblico si diverte a riconoscerle e a commentarne la resa teatrale sull’immacolato piano inclinato che funge da palcoscenico, benché il risultato spesso impallidisca di fronte al suo riferimento: pachidermica, per esempio, la partita di biliardo, con gli attori vestiti da bocce che lentamente capitombolano gli uni contro gli altri.

 

Le scene tratte esclusivamente dai romanzi, invece, non si discostano molto dalla prosa originaria di Villaggio e, proprio per questo, rallentano ulteriormente il ritmo dello spettacolo: la lunga introduzione in cui Filini rievoca il suo primo incontro con Fantozzi o il miracolo del volo che colpisce il ragioniere hanno espressioni romanzesche, anche un poco ingenue (“E l’autunno, le piogge leggere e l’odore dell’erba bagnata”), per le quali il rigore filologico è stato forse eccessivo.       

I nuovi inserti, invece, possono dividersi in tre categorie: da una parte ci sono le didascalie, recitate con un misterioso accento tedesco da Simonetta Guarino, che approfondiscono alcuni aspetti socio-culturali dell’epoca in cui le vicende sono ambientate (la comparsa, durante gli anni ’70 dei ristoranti giapponesi); dall’altra ci sono le citazioni, o al cinema più noto e popolare (Shining, Kill Bill) o alla tragedia classica e moderna (Edipo Re, Re Lear, La signorina Julie), del tutto decontestualizzate, utili forse, soprattutto le seconde, a spiattellare il riconosciuto substrato drammatico di un personaggio come Fantozzi e a attrarre l’orecchio di qualche erudito; dall’altra ancora, e fa parte a sé, il finale, in cui Fantozzi smette i panni dell’Everyman e accusa il pubblico di ridere di lui e dei suoi compagni di sventura da una posizione di inferiorità sociale, economica e affettiva: “Voi siete sottopagati, avete tre lauree e dieci mutui che non finirete mai di pagare. Voi vivete dilapidando il patrimonio dei vostri genitori, avete relazioni che si consumano in due settimane. Adesso vogliamo vedere chi è il coglionazzo, chi la merdaccia”.

 

Al netto del suo disarmante pressapochismo (il referente sono io, trentenne, la mia vicina di sinistra, poco più che ventenne, o il mio di destra, ultrasessantenne?), questo ultimo passaggio non fa altro che insinuare legittimi dubbi sul senso di proporre la versione teatrale di una maschera che non riesce a parlare al pubblico contemporaneo, forse proprio per la sua brillante acribia nell’evidenziare le contraddizioni della società di quasi mezzo secolo fa. 

Questo rischio, peraltro, lo intravede già Fantoni all’interno del suo libro, quando scrive: “Fantozzi è come Arlecchino, come Charlot, come Pulcinella. Sai cosa fa o non fa, cosa può fare o non può fare, come si veste, come parla. Portarlo in scena in forma di semplice prosa, pedissequamente ripreso dal materiale letterario poi diventato cinematografico, avrebbe fatto correre ancora di più il rischio di sembrare una pallida imitazione e pensavo fosse, a ragione, necessario sparigliare le carte”. Da qui l’idea di farne un musical, con un soggetto e uno svolgimento completamente diversi, peraltro approvata dallo stesso Villaggio. Ci si potrebbe chiedere quali siano i limiti storici di una maschera. In che modo essa possa essere piegata per rappresentare realtà e tematiche differenti, al di là dell’interprete, del padrone di turno, del sistema economico dominante. Se essere eredi di un bene culturale comporti necessariamente un’attitudine conservatrice. Se il pubblico di un teatro pubblico non abbia talvolta la necessità di veder messe in discussione le proprie certezze, la propria storia, i propri modelli culturali.

In questo senso, viene da pensare che quello sketch di La sai l’ultima? del 1993, lungo sì e no cinque minuti, avesse in sé più spirito di sperimentazione e spiegasse in modo più accurato, benché indiretto, il clima e l’ambiente da cui scaturiva, rispetto a questa produzione, che in 140 minuti (con intervallo) affastella una decina di episodi surgelati, tali e quali all’originale, con qualche innesto posticcio e una spolverata finale di miope moralismo. 


Visto al Teatro Nazionale di Geniva il 10 febbraio 2023

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