Il più grande pregio della versione di Liliana Cavani della celebre (tragi)commedia di Eduardo De Filippo si rivela nel dettaglio e nel tono. Il monologo di Rosalia (una controllata Nunzia Schiano), posto circa a metà dell'opera e laterale a tutta la vicenda, racconta succintamente la sua triste vita di madre di tre figli, tra sacrifici e povertà, eroica abnegazione e inconsolabile solitudine dopo la loro partenza per cercare fortuna in Australia e America. Il racconto è sommesso, quasi muto, tutta la gioia e il dolore sono visti attraverso il vetro opaco del ricordo e della stoica accettazione: asciuttezza e controllo rappresentano le linee guida registiche e recitative della messinscena.
Merito dei protagonisti avere dato vita a una Filumena (Mariangela D’Abbraccio) dalla grande estensione drammatica, e a un Domenico Soriano (Geppy Gleijeses) lontanissimo da ogni istrionismo melodrammatico. Ed è grazie a questo estremo controllo che il tema della maternità riesce a emergere come fulcro nodale della rappresentazione, centro tematico binario - appunto Filumena e Rosalia - che oscura quasi totalmente l'asse maschile, comparsa spesso infantile e persa in un vano orgoglio. Quest'uomo senza bussola è ben evocato da Geppy Gleijeses che oscilla sapientemente, durante i lunghi duetti con Mariangela D'Abbraccio, tra il suo essere guscio vuoto di padrone e uno spaesamento triste e inspiegabile. Quando si compirà la profezia di Filumena circa il suo implorare un’accettazione, Domenico Soriano comprenderà infine l'eroismo del sacrificio materno e acconsentirà ai termini della nuova vita con Filumena: qui il coprotagonista regala una lezione di recitazione, trasforma il suo Domenico per sfumature, lo rende conscio che il suo tempo è passato - il Don Mimì della giovinezza non c'è più - e lo fa commuovere quasi di nascosto per la parola "papà", pronunciata dai suoi figli acquisiti, biologici o meno. Messo in scena senza stacchi, se non brevissimi cambi scenografici a sipario aperto, questo adattamento ha l'onestà del tono, una precisione anti melodrammatica particolarmente lodevole. L'unico affaticamento arriva nella parte finale, la celebrazione del matrimonio "riparatore" (di torti in questo caso) ha una nota di superfluo, recuperata solo dal toccante momento delle prime lacrime di Filumena. Il centro della scena è tutto e solo per la maternità, più che per il femminile. Mariangela D'Abbraccio è particolarmente apprezzabile nella modulazione dell’ampio spettro di sentimenti durante la scena in cui rivela la sua identità di madre ai figli, seguiti da lontano per una vita, ma mai conosciuti veramente. Il personaggio di Filumena è talmente complesso - specialmente nel lungo gioco del gatto con il topo con Domenico - che è refrattario a qualunque riassunto; merito della recitazione è renderlo vivo. Perché quello che colpisce di Filumena non è tanto la caparbietà, l'eroismo o la stoica dedizione materna, è la sua capacità di resistenza, di negazione di se stessa per un altro (i figli) che poi altro da sé non è. È questo disvelamento di una identità plurale che costituisce non solo il fulcro della recitazione della D'Abbraccio, non solo lo scarto infinito tra il polo femminile e maschile dei personaggi, ma il cuore stesso dell'opera. Elementi di pregio: le grandi interpretazione di Mariangela D’Abbraccio e Geppy Gleijeses; l'impostazione senza sbavature melodrammatiche della Cavani. Limiti: figure di contorno non impeccabili; un po' di affaticamento nel finale. Visto al Teatro della Corte di Genova sabato 24 febbraio 2018. Produzione Gitiesse Artisti Riuniti Regia Liliana Cavani Interpreti Mariangela D’Abbraccio Geppy Gleijeses Nunzia Schiano Mimmo Mignemi Ylenia Oliviero Elisabetta Mirra Fabio Pappacena Adriano Falivene Gregorio Maria De Paola Agostino Pannone Scene: Raimonda Gaetani Costumi: Raimonda Gaetani Musiche: Teho Teardo Luci: Luigi Ascione
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