L'immancabile etichetta di teatro dell'assurdo applicata a Beckett e in particolare al suo Finale di Partita suona, come tutte le generalizzazioni, indicativa di una labile circostanza semantica, ma incapace di rendere completamente un significato. Si potrebbe infatti dire che Beckett voglia, specialmente con quest'opera, fare emergere l'incongruità del quotidiano, la ridicolaggine della routine, l'usura della noia; ma facendolo ciò che emerge è tutt'altro che assurdo, piuttosto una visione lucida e consequenziale dei fatti rappresentati. Il non senso sta nel letterale appiattimento del quotidiano alle sue istanze elementari, private di un orizzonte narrativo che le giustifichi: in questa prospettiva Finale di Partita è probabilmente il capolavoro definitivo del drammaturgo. L'orizzonte asfissiante e crepuscolare in cui la vicenda - anche se sostanzialmente non c'è alcuna trama che si svolga di fronte a noi - è immersa risulta tanto più efficace e credibile quanto più la sospensione di incredulità è pienamente realizzata. Essenzialmente il testo pare richiedere una recitazione il più naturale possibile, in modo da invitare la normalità sul palco e creare quell'effetto di spiazzamento semantico indicato sopra. Probabilmente questo è il punto più debole della messinscena curata da Andrea Baracco: la sensazione di straniamento prodotta da una recitazione che pecca un po' di accademismo rende il testo troppo geometricamente a tesi. Roberto Sturno riesce spesso a controbilanciare questa deriva dando al suo Clov una immediatezza e credibilità efficaci. Anche se probabilmente il problema principale sta in certi ritmi apparentemente troppo dilatati per supportare una fedeltà rappresentativa. La sensazione di essere di fronte *solo* a una recita di Finale di Partita è infatti onnipresente o quasi, rompendo purtroppo l'elemento essenziale di un teatro vissuto, invece che pensato. Resta l'elaborazione intellettuale e simbolica del testo, la sua riflessione lucida. Quando la barriera dell'astrazione viene superata si cade nella rete dell'illusione: Clov che continua a muovere la sua scala tra una finestra e l'altra della stanza, dimenticando puntualmente il suo cannocchiale e recuperandolo ad ogni passaggio, è la sintesi perfetta della quotidianità del mito di Sisifo. Il potere di risonanza del testo beckettiano è tale da aumentare di forza nel ricordo, al passare del tempo. Le scene di Marta Crisolini Malatesta sottolineano la trappola in cui i personaggi/cavie si trovano a vivere: una sorta di laboratorio, di labirinto per topi. Gli spettatori sono gli scienziati che osservano da una posizione apparentemente privilegiata. La più autentica lezione di Beckett è che chi siede in platea è oggetto dello stesso sguardo indagatore e rivelatore.
Elementi di pregio: le scene e i momenti rivelatori senza parole. Limiti: un'impostazione spesso troppo accademica che impedisce l'immedesimazione.
Visto il 13 Dicembre 2018, nella sala Duse del Teatro Nazionale di Genova Produzione: Compagnia Glauco Mauri, Roberto Sturno Regia: Andrea Baracco Interpreti: Glauco Mauri, Roberto Sturno con Marcella Favilla, Mauro Mandolini Scene e costumi: Marta Crisolini Malatesta Musiche: Giacomo Vezzani
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