Dopo lo spettacolo ci sediamo al pub, i rumori e gli scoppi di risa intorno a noi stridono con la densità del silenzio subacqueo in cui siamo ancora immersi. Anche davanti a una birra, siamo pur sempre gli stessi spettatori di quella bellezza dolorosa, orchestrata dall’abile mano del regista svizzero Milo Rau, che abbiamo assorbito raccolti nella Sala Modena del Teatro Nazionale. Le parole, quando cominciano a uscire, dividono, incontrano, spezzano, graffiano o, semplicemente, mancano. La nostra piccola porzione di platea è divisa ma partecipe: Grief & Beauty è uno spettacolo a cui è difficile voltare le spalle.
Questo secondo capitolo della Trilogia della vita privata ci affonda nel cuore del più umano dei dilemmi, del suo più infrangibile tabù: la morte. Di più: Rau decide di affrontarne la dimensione spesso più incompresa (anche giuridicamente parlando, considerato il nostro paese), quella del fine vita volontario. Se l’eutanasia continua a essere una pratica ripudiata in Italia, qui viene mostrata come alta testimonianza di dignità e di vita nella sua accezione più autentica. Una vita consapevole di sé stessa, dei propri desideri, dei propri limiti. Tutto questo è affidato alla video-testimonianza di Johanna B., riproposta a intervalli regolari durante tutto lo spettacolo. Johanna, a cui lo spettacolo è dedicato, è un’anziana belga che ha espresso la volontà di ricorrere al suicidio assistito. Questo percorso, che culminerà nel fine vita “in diretta” di Johanna, viene documentato da Rau e dai suoi attori, diventando la struttura portante dell’opera.
In scena, a rimescolare parole e vite appartenenti ad altre testimonianze, scorrono come racconti paralleli le storie di quattro personaggi. L’ambientazione domestica è ingannevole: il palco è arredato come un appartamento minuziosamente ammobiliato e offerto allo sguardo del pubblico in sezione, su un piano sagittale. I quattro protagonisti vi si muovono come ospiti, anche se inizialmente siamo portati a pensarli se non come famigliari, almeno come coinquilini: la condivisione di uno spazio così intimo crea questa sorta di distorsione cognitiva iniziale, che trova poi una sua forma d’accettazione più astratta. I quattro individui sono a tutti gli effetti “coinquilini”, in quanto però abitanti di uno spazio condiviso di vita narrata, con i suoi apici, le sue cadute, i suoi bivi.
La drammaturgia è una delle colonne portanti di Grief & Beauty: dipana con grande sobrietà l’unicità cangiante di ognuna delle vite narrate, proprio come le storie ben scritte sanno fare. La dimensione del racconto orale è ipnotizzante: l’epopea mitologica o dei grandi racconti storici viene qui racchiusa in gusci di noce, che gli eccezionali attori offrono sul palmo della mano, senza enfasi, senza caricature. Un’umanità gentile si racconta al passato, vite che sembrano giunte abbastanza vicine a una percezione di fine tale da permettere una placida condivisione di sé, struggente e leggera al tempo stesso. Alla fine, ogni vita ha percorsi e rituali che si assomigliano: si cammina in bilico tra la tragedia e la risata, tra lampi di felicità e improvvisi svuotamenti di senso, epifanie profetiche e fuggevoli indizi. Ogni storia qui è caratterizzata proprio da questa offerta imperterrita di sincera vulnerabilità, in grado di bilanciare quel senso di vacuità che si spalanca davanti, efficacemente rappresentato verso il finale dello spettacolo da un momentum di grande maestria tecnica e psicologica: il palco viene invaso da una spirale di luce e fumo, che s’allarga inghiottendoci insieme ai protagonisti, un artigianale buco nero che è anche Big Bang, l’inizio che ricomincia dalla propria fine.
Uno dei momenti più divisivi è stato sicuramente la video-ripresa condivisa con il pubblico del trapasso di Johanna: la videocamera introduce e accompagna gli spettatori – nolenti o volenti, e qui forse sta l’atto coercitivo che mi ha impedito di guardare la scena fino in fondo – in questo spazio sacro, inviolabile. C’è chi ha avvertito profonda compassione, chi fastidio, chi è rimasto emotivamente inebetito dalla forza delle immagini. Con quale diritto posso, io, assistere a un’intimità così violenta, inimmaginabile, concessa a una ristretta cerchia di persone? La morte qui si fa scabrosa, un pudore insistente si fa spazio in alcuni di noi. Certo è che prima di abbassare lo sguardo ho pensato: come è serena, in questo andarsene. E questo pensiero mi ha infuso una leggerezza anestetizzante, commossa. Mi sono sentita conciliata con l’idea di perdita, e di perdita volontaria, che è forse l’aspirazione più alta per chi è costretto a restare. Più tardi un’amica, sempre al pub, ha parlato di rito, di una riappropriazione cerimoniale che, come la nascita, è di per sé collettiva, condivisa. Ho trovato estremo ma a suo modo rigoroso l’inserimento di quest’ultimo tassello di una vita che non conosco e che non mi appartiene, ma a cui, in quello stesso momento, mio malgrado appartengo. Non è questo lo scopo ultimo dell’arte, in fondo? Farsi specchio e, dal singolo, universalizzare?
Le battute finali non si concludono su questo fermo immagine: il giovane uomo parla, interroga incuriosito l’anziano, tramite il meccanismo drammaturgico portante dell’intero spettacolo, ovvero il racconto spontaneo di uno dei personaggi che viene incalzato da domande, richieste di approfondimenti, coadiuvato in questo dallo sguardo in camera del parlante proiettato sullo schermo che incorona la scena. Si tratta di monologhi guidati, interviste blande, dettate dalla curiosità per dettagli che sembrano irrilevanti. L’anziano adesso racconta come ha incontrato l’amore della propria vita, la ragazza che diventerà sua moglie, con un buffo aneddoto accompagnato da goffi passi di danza: i titoli di coda cominciano a scorrere così sulla schermata retrostante, mentre gli attori, uno dopo l’altro, si inseriscono nel ballo, copiandone i passi, incespicando ognuno con il proprio stile, ingarbugliandosi nel ritmo, improvvisando.
Uno spettacolo che parla della fine, e che una fine, scenicamente, non ha: un paradosso dolcissimo e graffiante che ne racchiude tutta l’anima.
Elementi di pregio: innovativo, spiazzante, bravura di attori e attrici, raffinata costruzione drammaturgica, utilizzo dei video live in armonia con la recitazione “da palco”.
Limiti: come ogni forma d’arte “estrema”, ci sono limiti individuali che vengono travolti, terremotati. Questo spettacolo travalica il concetto stesso di “finzione” della messinscena, diventando potenzialmente un boomerang contro sensibilità eterogenee. Ritengo che il regista ne fosse tuttavia pienamente consapevole, e abbia accettato la sfida, con tutti i rischi, e limiti, che essa comporta.
Grief & Beauty
Visto a Genova, Teatro Nazionale, 14 ottobre 2022
Regia Milo Rau
Interpreti Arne De Tremerie, Anne Deylgat, Princess Isatu Hassan Bangura, Gustaaf Smans, Johanna B. (in video)
Drammaturgia Carmen Hornbostel
Scene e costumi Barbara Vandendriessche
Composizione musicale Elia Rediger
Musiche dal vivo Clémence Clarysse
Fotografia e video Moritz von Dungern
Luci Dennis Diels
Produzione NTGent, Tandem Scène National Arras-Douai, Künstlerhaus Mousonturm Frankfurt, Romaeuropa Festival, Teatro Nazionale di Genova
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