Alla fine di una stagione teatrale comincia il tempo dei bilanci e delle classifiche. Si riassume e si elenca il meglio e il peggio per consolidare nella memoria l'esperienza e il suo residuo fisso. Al termine di una stagione intensa per qualità e per quantità, probabilmente la stagione personalmente più intensa, ho creduto utile fare un bilancio soggettivo di questa esperienza, perché, come a volte accade, sono i resoconti più soggettivi che paradossalmente possono rappresentare una lezione più condivisa, se non universale. Un bilancio che evita classifiche, che non dà premi se non alla categoria intera e che vuole essere un punto da cui partire. Abbracciare il teatro senza remore - ritrovarlo dopo tanti anni nel mio caso - ha il sapore di tornare in un luogo conosciuto, ma poco frequentato, un po' per distrazione, un po' per timore. La prima si accompagna spesso a un fraintendimento che considera la tradizione teatrale, proprio perché così nobile e antica, anche un po' passata: niente di più falso; può sempre succedere che una forma d'arte muoia per esaurimento espressivo, ma la mia impressione è che per il teatro questo momento sia lontano nel tempo e la sua rilevanza e attualità non in dubbio. Timore perché spesso il miglior teatro mette in gioco tutti, non solo gli attori e gli artisti che lo creano, ma anche gli spettatori - che a ben vedere non sono fruitori passivi di un "prodotto", ma contribuiscono in modo decisivo alla sua creazione. Può quindi tutto sommato crearsi un fraintendimento, di cui sono stato vittima per lungo tempo: allo stesso tempo credersi non adeguati per formazione al teatro e viceversa crederlo non adeguato. Fraintendimento decisamente curioso e retrospettivamente quasi incredibile, visto che ora è il teatro a essere il luogo in cui forse mi sento più a mio agio e da cui mi sento accolto con una lezione da apprendere anche negli episodi meno convincenti. Il teatro è esperienza comunitaria, non si assiste mai soli alla sua magia; è allo stesso tempo intimo, fatto di analisi più o meno conscia dei nostri caratteri, perché gli attori svelando i personaggi rivelano noi a noi stessi. Il teatro è terapeutico, catartico come ci è stato insegnato a scuola; in fondo un po' come viaggiare: un'esplorazione di noi stessi e dell'umanità da una poltrona, attraverso le parole, i gesti e le espressioni altrui che sono nostre, in uno spirito di comunità. Questa inclinazione ha una possibile conseguenza: in tempi di cosiddetta disgregazione del tessuto sociale, forse il teatro può rappresentare un antidoto, sicuramente limitato e specifico nelle sue connotazioni, alle forze centrifughe dell'isolamento? Può capitare in modo sorprendente e inaspettato che una rappresentazione di un testo vecchio di qualche millennio, un cosiddetto "classico", ci parli come se fosse nostro contemporaneo. E se è sicuramente merito dell'artista che lo ha creato capace di svelare i segreti universali della psiche umana, lo è altrettanto di chi continua a metterlo in scena e, per tornare all'idea di comunità, di un pubblico che - in una sorta di staffetta senza confini di lingua e identità - continua a tenere viva una fiamma della tradizione. Parlando di fiamma, non trasgredisco la regola di non fare classifiche, citando la rappresentazione di Prometeo in cartellone nella stagione genovese, non in quanto esempio più lodevole, ma come paradigma di questa tradizione che perpetua l'esistenza di un dono quasi divino nei secoli: il teatro come eroica resistenza al cosiddetto sonno della ragione? Anche probabilmente, di sicuro momento che annulla lo spazio e il tempo per creare una comunanza umana che oltrepassa le generazioni. Del teatro si può parlare, scrivere, moltiplicando le analisi in un gioco di rimandi e approfondimenti, come abbiamo provato a fare nelle pagine di questo sito. Questa condivisione del discorso non sarà forse esclusiva del teatro, ma la fitta rete di topoi e canoni - una storia lunga millenni - è quasi inimmaginabile in altro contesto. Probabilmente, questo apparentemente interminabile passaggio di consegne da un autore all'altro, da un interprete all'altro, da uno spettatore all'altro, è davvero unico tra le arti, tra le forme in cui l'espressione umana ha potuto articolarsi. Forse questa unicità è testimoniata anche dal persistere della forma teatrale non solo nel tempo, ma anche nello spazio, tra culture lontanissime e con matrici diverse. E si potrebbe anche dire che il teatro è un modo per incarnare lo spirito migliore di quegli usi e costumi che costituiscono la cultura umana tout court. Il bilancio della mia stagione è proprio questo: aver ritrovato un luogo che non è mai andato via; un fascino per l'affabulazione che fa parte dell'intima natura umana; aver infine preso coscienza dell'evidenza semplice e a portata di mano: il teatro seduce perché è così intimo al nostro modo di essere.
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