Intorno a Bidibibodibiboo visto al Dialma Ruggero di La Spezia il 26 gennaio 2024
OCA: Lo spettacolo Bidibibodibiboo affronta un tema centrale del nostro modo di vivere e della nostra società, il tema del lavoro. Nello spettacolo la riflessione è su come il lavoro condizioni la vita, la salute, le relazioni, portando a mettere via passioni, rinunciando a parti di noi.
ALBERICI: Credo di aver raccontato la storia di moltissime persone, con questo spettacolo: nella vita si fanno compromessi tra le passioni e la vita lavorativa. Io ho studiato economia politica e ricordo che, quando ho iniziato, tanti compagni di corso dicevano “Io suonavo”, “Io volevo fare il calciatore”, “Io volevo fare lettere”, “Io filosofia”… Credo che un po’ in tutte le facoltà sia così perché si sceglie a 18 anni e a 18 anni si sceglie anche un po’ a “casaccio”; anche chi fin da piccolo ha un pallino preciso in testa, non è detto che faccia la scelta che aveva sognato di fare perché intervengono molti fattori, familiari, ambientali economici, sociali. Io stesso prima di fidarmi del fatto che il teatro potesse essere un lavoro ci ho messo un po’. Ho iniziato a 25 anni, dopo la laurea in economia politica; il teatro non mi sembrava attendibile come percorso, non venivo da una famiglia di artisti, appartenevo alla classe media, i genitori convinti che la felicità dei figli coincidesse con la sicurezza e la tranquillità economica.
OCA: Ho trovato molto riuscito e ben calibrato il modo in cui nello spettacolo hai mescolato il piano privato e il piano lavorativo, sia a livello di elementi scenografici che a livello di sviluppo del tema. Sapendo che hai scritto il testo durante il lockdown, ti chiedo se questo rimescolamento, questa indifferenziazione di dentro e fuori, di lavoro e vita, era una cosa che avevi già in mente o se è nata lì, in quel momento, influenzata dal tempo indistinto e misto del lockdown.
ALBERICI: No, l’avevo già in mente. Questa commistione ha a che fare con il discorso degli open space aziendali, molto diffusi in un certo tipo di aziende. Io la leggo così: mi sembra che si tenti di applicare l’idea che il dipendente non abbia bisogno di uscire dall’azienda: tutto sta dentro, a partire, appunto, dalla cucina. Un amico che lavorava in una grande azienda, mi ha raccontato che, lì in ufficio, avevano una sala prove con chitarre e amplificatori, “Vai, le attacchi e suoni”. Ci sono campi sportivi, tavoli da ping pong, biliardino. Ma tutte queste “attenzioni” alle esigenze dei dipendenti sottendono, secondo me, l’idea che alla fine non c’è bisogno di staccare e andare a pranzo o tornare a casa, non c’è bisogno, la sera, di andare in palestra, perché puoi fare tutto dentro l’azienda; ma si rivela una sorta di chimera perché, se stai lavorando a certi ritmi, non puoi dire “Adesso faccio una partita a ping pong”, lo farai una volta in un anno. Però lì c’è comunque la possibilità di farlo.
OCA: Se non sbaglio questo è il primo testo che scrivi da solo a tavolino per poi consegnare il copione agli attori già nella versione definitiva. In questo molto diverso dal procedimento drammaturgico di Deflorian/Tagliarini e dai lavori realizzati con Frigo Produzioni.
ALBERICI: Nel caso di Socialmente, il primo spettacolo della mia compagnia Frigoproduzioni, la forma prevalente è stata la scrittura scenica, anche se è davvero difficile riuscire ad essere categorici. Mi ricordo che alcune cose le ho scritte a casa, altre me le sono appuntate sul cellulare mentre ero in metropolitana, altre sono uscite in sala durante le improvvisazioni. Stessa cosa per Tropicana, secondo spettacolo di compagnia, che è stata una collaborazione drammaturgica di tutto l’ensemble. Con Deflorian/Tagliarini ho collaborato alla scrittura in tutti gli spettacoli ed è stata proprio una scuola di scrittura scenica: studi le strutture dello spettacolo, le soluzioni da applicare, il linguaggio teatrale e, attraverso la pratica, capisci alcune cose.
Prima di consegnare il testo di Bidibibodiboo agli attori e iniziare le prove, lo avevo già letto e riletto infinite volte io da solo e ad amici per testare delle cose. Ne era stata fatta anche una lettura scenica ad Avignone, in francese da attori francesi. Il testo è infatti nato come progetto per l’Ecole des Maîtres e sempre all’interno del progetto Ecole de Maîtres, io, Salvatore Aronica e Daniele Turconi, ne avevamo letto un brano durante Short Theatre del ‘21.
OCA: Quindi ci stai lavorando da molto tempo.
ALBERICI: Dal 2020. Sono soddisfatto del “risultato artistico” di questo spettacolo. Ora però deve girare: quando ci lavori così tanto, ci dedichi 3 o 4 anni della tua vita, è difficile accettare che si esaurisca in poche date.
Non è l’esito di quaranta giorni di prove, è l’esito di un pensiero…
OCA: Da dove sei partito in questo lavoro?
ALBERICI: Durante l’Ecole de Maitres dovevamo scrivere un testo. Stavo cercando un tema, un tema bello. Mi è capitato di leggere La tirannia del tempo, di Judy Wajcman, una sociologa che ragiona in maniera molto bella sul paradosso per cui, nonostante oggi abbiamo moltissima tecnologia che ci consente di ridurre i tempi di una serie di processi (dal pagare una multa al fare una lavatrice), la sensazione diffusa è che l’orologio giri in maniera accelerata e, quindi, che il tempo sia di meno. Uno potrebbe dire “Come è possibile che sia così?”. Quando si parlava, trent’anni fa, di automazione dei processi si prevedeva che avremmo lavorato quattro giorni a settimana e che avremmo avuto molte più ore di tempo libero; anzi c’era addirittura il timore che le macchine “rubassero” il lavoro, che gli umani si trovassero a non avere più nulla da fare, a essere senza lavoro, invece quando si va a sbirciare nelle società che lavorano nella finanza, nella consulenza, nei grandi studi da avvocato, dovunque, si vede gente uscire dall’ufficio alle 10 di sera. Quindi, come si spiega questo paradosso?
Ecco, quella traccia di lavoro mi sembrava interessante.
OCA: Quindi è stata un’idea alla quale poi hai dato corpo attraverso un fatto, una vicenda
ALBERICI: L’idea era quella, poi sono andato a vedere Sorry We Missed You di Ken Loach, un film stupendo che parla di un uomo che fa il corriere per una ditta esterna di una grande impresa dell’ e-commerce. Dovevo realizzare un podcast insieme a Daria Deflorian e Antonio Tagliarini per la Triennale di Milano durante la pandemia per presentare e parlare di Chi ha ucciso mio padre [monologo di Eduard Luis interpretato da Francesco Alberici, regia di Deflorian/Tagliarini N.d.R]. Realizzando questo podcast a un certo punto ho come messo insieme tutti i pezzettini: il discorso che fa Eduard Luis è collegato in qualche modo al discorso che fa Ken Loach e ho pensato che quel discorso riguardasse molti e anche me. Da lì ho iniziato a mettere insieme il testo.
OCA: Ho trovato interessante questo spostamento per cui durante lo spettacolo lo spettatore è portato a dimenticarsi che la vicenda potrebbe riguardare te.
Il testo poi non è chiuso alla tematica del lavoro. La tematica del lavoro è usata per tornare all’umano nel profondo: si inizia con una riflessione su come impiegare il proprio tempo e si chiude con “ La prima cosa a cui penso al mattino è la musica” e noi sappiamo che chi lo dice ha sottratto la musica dalla propria vita.
ALBERICI: ma certo, perché voleva alla fine anche essere un testo sulle scelte, su quanto le scelte di vita che facciamo siano influenzate solo marginalmente dalla nostra volontà. C’è un po’ il mito “Se vuoi fare una cosa puoi farla”, “Se vuoi diventare astronauta puoi farlo”, “Se vuoi fare l’avvocato puoi farlo”, ma sappiamo che non è così perché ci sono una marea di variabili che entrano in gioco
OCA: Se il sistema fa passare che puoi fare quello che vuoi, se non fai quello che vuoi, la responsabilità non è del sistema, ma è tua…
ALBERICI: La responsabilità è tua e sei un fallito. Questa idea che “tutti possono” non è reale: se uno non parte da una condizione economica privilegiata, non può un bel nulla. Ma non è solo questo, è proprio l’idea che la volontà vinca su tutto ad essere sballata. Ci sono gli ostacoli diretti che cambiano il corso della volontà e poi ci sono i fattori invisibili che sono le pressioni familiari, sociali, ambientali, la casualità, la paura di fallire. Quando Salvatore nell’ultima scena parla della sensazione di una promessa mancata, in quella battuta “ho fatto tutto quello che dovevo fare, tutto quello che mi hanno detto di fare, ma non ero felice”, in quella battuta c’è il tentativo di condensare un tema portante di questo spettacolo. Io sono cresciuto negli anni Novanta, in un clima in cui la prospettiva dei miei genitori era quella che i loro figli sarebbero stati più soddisfatti lavorativamente ed economicamente e che si sarebbero potuti sistemare per bene. Questa prospettiva spingeva i genitori a consigliare di fare medicina, ingegneria, economia e commercio, giurisprudenza.
La prima “botta” è stata la crisi dei mutui subprime del 2008 e quella prospettiva è stata completamente sballata e rasa al suolo. Quelle norme non dette, quei consigli impliciti, non erano solo familiari, ma tutto l’ambiente ti suggeriva di andare in quella direzione.
Conosco tantissima gente che fino a 32 anni è rimasta nello studio dell’avvocato a 600 euro al mese per fare lo stage. 1200 euro al mese è lo stipendio di un insegnante.
Si è proprio capovolto il mercato del lavoro.
L’Europa si è impoverita, abbiamo fatto dei passi indietro a livello sindacale e tutta quella promessa di felicità si è completamente opacizzata.
OCA: C’è un momento nella parte finale in cui tuo fratello [per il gioco drammaturgico e scenico condotto a più livelli rimandiamo alla visione dello spettacolo, alla lettura del testo o, in ultimo, alla recensione NdR] ti dice “ma cosa cazzo ne sai tu delle responsabilità”. Io mi aspettavo una replica energica, tu invece hai lasciato correre come se avessi riconosciuto in questo attacco una qualche ragione.
ALBERICI: Quel personaggio, in quel momento, gioca lo stereotipo che c’è sul teatro dicendo al fratello drammaturgo “ma tu che ne sai, fai il teatro, fai le cazzate”. Però dice anche una parte di verità quando accusa il fratello di voler sfruttare la sua storia per fare qualcosa che piaccia ai critici e ai direttori dei teatri per sentirsi dire che è bravo e che quello che fa è bello.
Questo testo tira dentro tutto e il contrario di tutto, tesi e controtesi.
Se è vero che avevo il desiderio di fare un teatro politico, se è vero che vorrei denunciare queste aziende che sfruttano le persone, è anche vero che c’è una componente di vanità personale e di meschinità nell’appropriarsi di storie di vita vissuta per farne spettacolo. È un tema molto controverso.
Quando stavo ancora scrivendo il testo di Bidibibodiboo, Carrere doveva uscire con Yoga. Ci fu tutta una polemica tra lui e la sua ex moglie, anche lei scrittrice: lei aveva letto una prima bozza del libro e aveva querelato Carrere dicendo che non poteva parlare di come era andato il loro divorzio: “non te lo consento perché quello è un pezzo di vita mia. Parla pure di te stesso, ma di me non puoi parlare”. E Lui ha riscritto il libro e in effetti ci sono proprio delle omissioni in alcune zone. Mi affascinava quella roba lì: quanto puoi andare oltre e fare della tua vita “roba” di spettacolo?
OCA: Nello spettacolo racconti la storia di economia, due volte, una prima volta dicendo che hai rinunciato al lavoro sicuro, la seconda volta confessando che si trattava di un lavoro perdibilissimo; in questa correzione di tiro c’è quello scarto in cui la realtà viene presa, rivista, resa più teatrale e in questo modo, proprio in questo passaggio, dai anche gli strumenti per muoversi all’interno dello spettacolo.
ALBERICI: Quello è proprio l’exemplum: da un lato, la realtà dei fatti accaduti, dall’altro il “come io” racconto quella realtà, aggiustandomela su misura in modo da diventare l’eroe coraggioso che dice “Addio, vita moderna! Non mi avrai, sarò un eroe romantico e artista”.
OCA: In questo spettacolo, più che in qualunque altro io abbia visto, ho apprezzato lo svelamento graduale delle cose.
ALBERICI: Una cosa non prevista che è arrivata all’ultimo è stata la scenografia inscatolata. All’inizio c’era già tutta, ma la trovavo statica e decorativa. E da lì ho detto: allora inscatoliamo tutto! Il procedimento di apertura delle scatole aiuta lo svelamento: sotto l’apparenza di uno spettacolo ce n’è un altro. Alla fine diventa uno spettacolo sul teatro, sul mettere in scena.
OCA: sì, è uno spettacolo molto metateatrale…
ALBERICI: L’idea era quella di istituire un parallelo tra un mondo lavorativo altro e il mio mondo lavorativo, arrivando a dire che l’ansia verso risultati di performance, la paura del fallimento, il ragionare per successi e fallimenti, non riguarda solo il mondo del lavoro, ma ha attecchito a livello culturale e riguarda tutto: la gestione del proprio corpo, degli affetti, delle relazioni con gli altri. Quando il mio personaggio, interpretato da Daniele Turconi, dice all’avvocato: “Sa, anche io suonavo” “Suonava?” “Sì, ho smesso” “E perché?” “Non ero abbastanza bravo” ecco, quello è un po’ il centro. Lo faccio perché devo essere bravo.
Dopo aver scritto il testo ho letto Il Soccombente di Thomas Bernhard.
È scritto in prima persona e il narratore racconta di aver fatto un corso di specializzazione per pianista da Vladimir Horowitz insieme ad altri due pianisti selezionati dalle migliori scuole del mondo. Quindi a seguire questo corso, che si tiene a Salisburgo, sono in tre: lui, un altro e Glenn Gould. Gli altri due vedono che Glenn Gould è immensamente più bravo di chiunque mai avessero visto, più bravo anche di Horowitz e smettono di suonare, si dedicano ad altro e uno dei due arriva al punto di impazzire e di suicidarsi. Bernhard è sempre raggelante: non fare una cosa perché è bella, ma farla solo se si è i migliori nel farla, sennò non ha senso. Parlo così come se io fossi indenne da questi problemi, ma è chiaro che se ne parlo così è perché lo sento io per primo.
OCA: mi viene da dire che non faresti dei lavori così’ riusciti se non avessi quel tarlo.
ALBERICI: Sì, forse per un principio di contraddizione tra le cose è proprio così. Tutti i miei lavori hanno questa linea del racconto del fallimento del tentativo di fare uno spettacolo. Tropicana era esattamente la stessa cosa.
Un paradosso molto interessante: se tu racconti dei fallimenti, anche se li traduci in fallimenti formali, vuol dire che sei ossessionato dall’idea del fallimento. E io penso di esserlo, anzi lo sono.
OCA: è anche una scelta - se vogliamo - politica: celebri il fallimento, non solo quello del personaggio di tuo fratello, ma anche il fallimento del teatro, una carrellata di celebrazioni di fallimento che poi in realtà è un successo. Politico in questo senso, sei verso il lato debole.
ALBERICI: quello che mi affascina di più raccontare è l’angoscia del fallimento, la paura di fallire, la paura di andare a sbattere, la paura di non fare le cose come vanno fatte. In Tropicana, uno dei racconti guida era quello del gruppo italiano che ha scritto la hit Tropicana. Hanno scritto questo pezzo nell’83 / 84 raggiungendo le vette delle classifiche e poi sono colati a picco. Noi in quello spettacolo raccontavamo la nostra paura, come compagnia di replicare quel meccanismo.
OCA: quanto tempo dedichi allo studio?
ALBERICI: Tutto. Tutto il tempo. Vivere è – per me – studiare. Non so se è una mania ossessiva, ma per me tutto è fonte di studio: gli altri, le relazioni, le persone che incontri, i libri che leggi, i film che vedi. Il mio lavoro è in realtà avere costantemente le antenne ritte, cercare di cogliere quello che mi circonda, lo spirito del tempo, i movimenti, i discorsi delle persone, la lingua che si utilizza, tanto quanto cercare di leggere i classici, i libri nuovi che escono. Per me letteratura e cinema sono fonte di ispirazione. Tutto è studio. Anche dal punto di vista attoriale andare in scena è sempre imparare qualche cosa di sé in scena, è una costante attività di studio.
OCA: hai mai pensato di insegnare? O magari cercare insieme a un gruppo di persone alle quali in questo modo passare certi strumenti.
ALBERICI: a me piace più studiare che insegnare. Ci sono delle persone che hanno uno spirito pedagogico molto forte, come ad esempio Danio Manfredini, un Maestro. Però, per quanto riguarda me, non mi piace l’idea di avere della gente che mi pende dalle labbra, non so quanto io riesca ad essere consapevole dei miei strumenti al punto da trasmetterli a qualcun altro. Però forse mi piacerebbe scrivere assieme ad altre persone.
All’estero è diffuso il concetto della writing room: una stessa materia viene scritta e riscritta, rivista centinaia di volte tramite decine di passaggi da gruppi diversi di persone molto preparate. L’esempio più virtuoso per me sono i Monty Python. Loro come gruppo comico hanno scritto della roba ineguagliabile ed era ineguagliabile perché non era frutto di una mente, ma di sei geni che si continuavano a rimbalzare le cose.
Questo mi piacerebbe, scrivere insieme, alla pari, qualcosa in un lungo progetto. Naturalmente è molto difficile da realizzare, mancano le risorse economiche per attivare un processo di scrittura di questo tipo. Però sarebbe molto interessante e arricchirebbe il campo della drammaturgia.
Intervista a cura di Francesca Picci
Foto di Francesco Capitani
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