Ci sono regole non scritte, come quella per cui il dolce è servito alla fine del pasto. Se il dessert si rivela all’altezza delle aspettative, allora la cena può dirsi “memorabile”. Perché è il come finisce – un libro, un film, una relazione, una vita – che pianta le proprie radici nella memoria.
Anche se inusuale, è proprio dal finale de L’Istruttoria che vorrei partire, iniziare la “cena” dal dessert, pur non trattandosi di una vera e propria “dolce conclusione”. Anzi, mi correggo: non si può nemmeno parlare di conclusione; perché L’Istruttoria non finisce. Allo spettatore non è dato modo di chiudere, non c’è un momento applausi o di raccoglimento: un’attrice ordina di uscire dalla sala e tutti, in silenzio, escono. Ma L’Istruttoria continua. Siamo noi a decidere quando e se finirà, chi rompendo il silenzio e chi solo con un guizzo nello sguardo, quello tipico di chi si è appena ridestato da un incubo. Quanti spettacoli possono dirsi “non conclusi”? Se dovessi provare a contarli, finora mi basterebbero il pollice e l’indice. E non bisogna confondere la mancata risoluzione finale con il più banale dei finali aperti: il finale aperto esiste, il sipario si chiude, le luci si spengono, gli attori si inchinano e il pubblico può dirsi sorpreso o infastidito, ma ciò non toglie che una conclusione c’è stata.
Il “finale” de L’Istruttoria è «Uscite!». Il presentimento è che lo spettacolo non sia davvero terminato. Uscendo, si attraversa la finta parete che costituisce la scenografia: le porte di questa struttura, da cui durante la pièce arrivavano i personaggi, ora sono spalancate: quello che vi si vede oltre sono gli attori, di spalle, rivolti a una platea vuota, ormai abbandonata. Uscendo, ci si aspetta che gli attori esalino l’ultima battuta. Ci si volta un primo momento, poi un secondo, magari anche un terzo, ma poi si arriva inevitabilmente nel foyer.
Perché – vi starete forse chiedendo – un’attrice ha avuto l’ardire di sfondare la quarta parete e intimare agli spettatori di abbandonare la sala? Ebbene, per comprendere un finale, giustamente, bisognerà pur partire da un incipit che, in maniera paradossalmente coerente, non si apre (così come la fine non si chiude). Quando inizia, davvero, L’Istruttoria? Con l’annuncio dell’ingresso in sala? Nel foyer, quando si è tutti ammassati? Mentre si percorre il corridoio in fila indiana? O addirittura quando viene chiesto di lasciare cappotti e borse al piano di sotto? Mi viene da dire che L’Istruttoria non comincia, piuttosto prepara. Lo spettatore viene posto nelle condizioni “ottimali”, accompagnato dall’inizio (fittizio) alla fine (inesistente) della pièce. Non si tratta, però, di un condurre amichevole, piuttosto di uno scortare. I modi degli attori e delle attrici sono bruschi, duri, invadenti, spiazzanti, quasi che il pubblico si debba sentire “di troppo”, un’appendice fastidiosa da amputare il prima possibile. Ovviamente, questo tipo di atteggiamento è voluto, nulla è lasciato al caso e il sottile, spinato fil rouge che collega i gesti quasi rituali degli spettatori al fare violento degli interpreti è la tematica trattata e raccontata in questo magistrale lavoro.
L’Istruttoria di Peter Weiss, testo del 1965, nasce da una minuziosa raccolta diretta e una rielaborazione degli atti processuali del famoso e controverso Processo di Norimberga del 1945. Brevemente: le forze alleate siedono al tavolo dei giudici, i nazisti a quello degli imputati e i sopravvissuti a quello dei testimoni. Molto si è scritto, in merito a questo processo di portata mondiale, tanto ha fatto discutere, ma una cosa era certa: quegli uomini e quelle donne chiamati a deporre, derubati della loro patria, dei loro averi, dei familiari e della dignità, avevano l’urgenza di far conoscere, con la possibilità di una cassa di risonanza senza precedenti, gli orrori a cui avevano assistito all’interno dei campi (e anche all’esterno). Weiss raduna queste testimonianze, sia quelle dei sopravvissuti sia quelle degli assassini, e ne scrive un altro processo, un’udienza che avviene sopra un palco. L’intento è proprio quello di mantenere viva, nella maniera più scientifica possibile, la memoria di un pezzo di storia tanto oscuro da essere destabilizzante per chiunque ne partecipi, anche in maniera indiretta.
Nel 1984, Gigi Dall’Aglio prende tra le mani il testo di Weiss, trattandolo con la riverenza e la fedeltà tipiche dei grandi registi, e ne fa nascere uno spettacolo che, dopo quasi quarant’anni di repliche, non ha conosciuto né la fatica di attrarre a sé il pubblico né tantomeno l’usura del tempo.
Eppure, lo scoglio del tempo, in relazione a questa pièce, è un qualcosa che non posso valicare con noncuranza e, sempre in merito a questo, mi è necessaria una premessa di natura personale: vidi L’Istruttoria, per la prima volta, al Teatro Due, in un pomeriggio di fine febbraio 2020. Parma era inondata da un tramonto viola e arancio, di una bellezza disarmante, quella che, per i più pessimisti, presagisce quasi sicuramente qualcosa di terribile. Nonostante il mio fiero e instancabile pessimismo, non possedevo del tutto la consapevolezza che quello spettacolo sarebbe stato l’ultimo a cui avrei assistito prima della pandemia e, ancor meno, avrei potuto sapere che sarebbe stato l’ultima apparizione di Gigi Dall’Aglio, scomparso poi nel dicembre di quello stesso anno.
Gli “scherzi” del destino sanno essere sfacciatamente sadici, ma mi hanno portato a vivere questo secondo viaggio all’interno de L’Istruttoria con quello stato d’animo di trepidante angoscia che mi ha consentito di attraversarla proprio come un naufrago su di una zattera in un mare in tempesta.
L’Istruttoria di Dall’Aglio prevede una distinzione netta tra quello che, in un primo momento, ha tutte le carte in regola per essere uno spettacolo itinerante – nel nostro “finto” inizio, è il pubblico a spostarsi e, soprattutto, a provare quella sensazione di claustrofobico ammassamento-, e, nella seconda parte, uno spettacolo di prosa, ad hoc, con gli spettatori che riconquistano l’apparente serenità delle poltrone della platea. Il ritmo è serrato, non consente di respirare né agli attori né al pubblico. È un vero e proprio fiume in piena, una diga che si squarcia e la cui acqua travolge tutto ciò che incontra. Dall’Aglio mantiene intatto, pur con qualche minima variazione, l’intento originario dell’opera di Weiss in cui i «versi liberi, brevi e brevissimi» che costituiscono «una sostanza verbale apparentemente incolore», in realtà «restituiscono, con un’immediatezza a volte quasi insostenibile, non un senso, ma tutti i possibili sensi di quello che la documentazione storica più completa può offrire: […] un testo di poesia integra, anzi approfondisce, dati della storia» (Zampa G., L’Istruttoria, Einaudi, 2022).
Questa ritmica ossessiva è strettamente connessa alla scrittura scenica altrettanto dinamica: gli attori e le attrici interpretano più ruoli, spesso chi è vittima diventa carnefice e viceversa – solo la procuratrice è stabile. Nonostante questi continui passaggi repentini, di interpreti e parole, L’Istruttoria riesce comunque a fissare delle immagini, crude e tangibili, come dei destri allo stomaco. esempio lampante di questa macabra genesi è stato il mio chiudere gli occhi, pur non assistendo a nulla di concretamente raccapricciante, ma solo ascoltando.
Ora dovrebbe essere chiaro il motivo per cui il non-finale risulti così traumatico e, tantomeno, non possa definirsi una “dolce” conclusione, anzi, forse è addirittura crudele: Antonin Artaud, padre putativo del "teatro della crudeltà", nel suo Il teatro e il suo doppio, scriveva: «Una vera opera teatrale scuote il riposo dei sensi, […] impone alla collettività un atteggiamento eroico e difficile». Ecco, L’Istruttoria ci impone e ci invita a essere, nel nostro piccolo, eroi ed eroine sebbene a noi rimanga solo il compito di assistere indirettamente agli orrori che ci vengono narrati; la difficoltà, invece, sta nel tramandare e ricordare, ma su questo mi permetto di dire che il lavoro è a buon punto. Dopo quarant’anni di repliche, centinaia di spettatori per volta, la sala era gremita di giovani. Oltre alla soddisfazione di aver prodotto uno spettacolo pluripremiato, pluri-replicato e pluri-studiato, credo che la concentrazione di questa vigorosa curiosità giovanile sia il vero motivo per cui Gigi Dall’Aglio possa sentirsi orgoglioso del suo capolavoro.
«I vuoti di oblio non esistono. Nessuna cosa umana può essere cancellata completamente e al mondo c’è troppa gente perché certi fatti non si risappiano: qualcuno resterà sempre in vita per raccontare. E perciò nulla può mai essere “praticamente inutile”, almeno non a lunga scadenza.».
Hanna Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme
Elementi di pregio: la dinamicità dell’intera produzione, il suo essere crudo e spiazzante, oltre alla drammaturgia e alla scrittura scenica.
Limiti: non credo di poter rilevare dei “limiti” in una performance di questa portata.
L'Istruttoria
Visto presso Fondazione Teatro Due il 14 aprile 2023
Con Roberto Abbati, Paolo Bocelli, Cristina Cattellani, Laura Cleri, Paola De Crescenzo, Davide Gagliardini, Pino L’Abbadessa, Milena Metitieri, Massimiliano Sbarsi e Davide Carmarino (esecuzione musicale)
Musiche originali Alessandro Nidi
Costumi Nica Magnani
Luci Claudio Coloretti
Regia Gigi Dall’Aglio
Produzione Fondazione Teatro Due
Foto Andrea Morgillo
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