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Massimo Milella

L’O.C.A. a INEQUILIBRIO 2023 | Diario del nostro “sconfinamento”

Tre prime nazionali – 14.610 di Claudia Catarzi, Them di Gruppo Nanou e Maternità di Fanny & Alexander – oltre all’attesa anteprima di All About Adam di Giuliano Scarpinato.

E ancora, la danza di Michele Ifigenia Colturi, la drammaturgia di Rita Frongia, il più recente lavoro di Marco D’Agostin.

La prima apparizione dell’O.C.A. tra Castiglioncello e Rosignano per l’edizione 2023 di Inequilibrio (Armunia) è durata solo tre giorni, ma più che sufficienti per documentare che, almeno sul piano della proposta artistica, questo è un Festival in salute e che ha delle idee, capace com’è di far convergere esperienze performative di grande valore, in una proposta – “sconfinamento” era la parola chiave di quest’edizione, diretta da Angela Fumarola – efficace e organica.


6 LUGLIO

14.610 - Claudia Catarzi, prima nazionale

Teatro Solvay, Rosignano Solvay


LILITH - Rita Frongia

Sala del Ricamo, Castello Pasquini, Castiglioncello


ALL ABOUT ADAM - Giuliano Scarpinato, anteprima

Arena Castello Pasquini, Castiglioncello


La prima giornata dell’O.C.A. a Inequilibrio 23 è stata fertile di entusiasmo e non certo (solo) per il tuffo nell’acqua trasparente della spiaggia (libera, naturalmente, vi immaginate due oche sul lettino?) di Castiglioncello - una perla di cui vorremmo parlare pochissimo per evitare che il turismo se la divori.

Tre spettacoli per corpo solo, ma circondato da fantasmi.


In 14.610, la performer e danzatrice Claudia Catarzi torreggia su una struttura sopraelevata, che offre alla vista frontale del pubblico un pannello inclinato verso il basso, obliquamente. Un corpo verticale, una struttura spaziale che determina una situazione: è la presentazione di una condizione precisa. Nell’aspettativa di chi guarda, è possibile immaginare una discesa, una faticosa salita, lo scivolamento, il rischio della caduta. Ma 14.610, performance straordinaria, ha un potenziale immaginativo enorme, che travalica l’evidenza della tesi spazio-corpo enunciata, in sé astratta. Il corpo femminile, che danza il suo sempre consapevole, prodigioso, concretissimo equilibrio in rapporto alla condizione astratta di una metafora, agisce all’interno di due ulteriori spazi.

Il primo è sonoro: la composizione musicale curata dal musicista e performer parigino Julien Desprez cuce, intorno a un’unica tonalità, granitica nella sua consistenza e leggerissima nella sospensione, un mix elettronico di interferenze, brevissimi accenni di ritmo – come relitti che affiorano sulla superficie del mare per poi tornare nell’oblio – e persino il refrain di una canzone pop riconoscibile – Girls just wanna have fun, di Cindy Lauper.


14.610 - foto di Valeria Manna


Il secondo, forse il più incontrollabile, è quello del mondo intorno a 14.610, ovvero lo spazio scenico, nello specifico delle possibilità offerte dal Teatro Solvay. Pubblico e artista condividono il palcoscenico, in uno sguardo frontale ma rovesciato, nel senso che alle spalle di Catarzi si apre l'immensità di una platea di poltroncine vuote. La prospettiva della visione, poi, dal basso verso l'alto, consente di inserire il corpo estroso della performer dentro una cornice singolare, carica di atmosfere fantasmatiche. La concentrazione spazio-corpo di 14.610, che è la sua ricchezza, sta proprio nelle infinite possibilità che la specificità del luogo può conferire a questo spettacolo. Il corpo della danzatrice è centro di un sistema vastissimo di relazioni, sguardi, complicità, interferenze, distrazioni e, mentre scivola giù, consegnandosi al pubblico, nell’oscurità che precede l’applauso, mi trasmette la sua tonalità granitica, eppure leggera, sospesa, attraversata da interferenze. Il centro, contagiato dal mondo, è vuoto. Strano come qualche volta, il corpo danzante, quasi involontariamente, rievochi il fondo nero magnetico delle nature morte di Sánchez-Cotán – o il quadrato nero di Malević?


Lilith di Rita Frongia, interpretato in modo meraviglioso da Angela Antonini, è stato un altro regalo per lo spettatore, con registro e ambientazione completamente diversi. Innanzitutto, è uno spettacolo “di drammaturgia”, definizione scivolosa, da non fraintendere. Intendo dire che, al di là della natura profondamente drammaturgica dell’arte di Frongia, è evidente che ci sia una stesura di un testo nel cuore di Lilith – o, meglio, nella sua colonna vertebrale, perché Lilith non ha un cuore, ma un corpo enorme, immenso e una stabilità universale. Due indizi: il primo è la struttura, il secondo è un tic.

Per struttura, intendo la presenza di una costruzione lineare, che parte da un’introduzione (evocazione) nella quale Antonini attraversa un tunnel, nello spazio e nel tempo, prima di entrare in scena, per poi articolarsi lungo le evanescenze impossibili di una presentazione – il proprio nome, le proprie origini: l’allusione è il mito di carne e di tempesta di Lilith, figura demoniaca, immaginaria prima donna precedente a Eva che si autoesclude dal paradiso terrestre perché non avrebbe ottenuto gli stessi diritti di Adamo, e infine si conclude, con la parola che non può più aggiungere nulla, al termine di una notte stellata, di un respiro infinito: «ho finito», dice Antonini.

Il secondo indizio è un tic drammaturgico, una forma impersonale che esprime una convergenza di urgenze, una consonanza tra Frongia e Antonini, tra poesia e carne: l’espressione «va detto», ripetuta così tante volte da non poter risultare casuale, come fosse una consegna precisa, un intercalare di una voce altrui, un ritornare al teatro, nella tensione invisibile di un piccolo pentimento, una riflessione, un passo indietro: è la traccia di una responsabilità artistica specifica – quella drammaturgica, per l’appunto.

Lo spettacolo è visivamente plastico, pieno di lucine verdi che tempestano tutta la scena buia e fanno da stelline, una zanzariera a soffitto che svolazza in scena – perché Lilith è anche vento – lampade anulari da conferenze su zoom, di vari colori, che Antonini manovra e usa per la sua composizione sonora e corporea. Non è un monologo, forse, benché il corpo sia solo in scena, e la voce sia la sua, e ci sia un testo che, come abbiamo visto, accade, linearmente, nitidamente – e poetico, bellissimo, da leggere in silenzio, da re-immaginare. È il lavoro vocale e fisico di entusiasmo, di dolore, di fatica, di un’attrice-demone, in transizione tra corpo e astro, con una lingua – una léngua dice Lilith – che è così diversa da quella che comunemente siamo soliti comprendere. E non sono le lettere diverse, che la rendono differente. È che Antonini trasforma la drammaturgia direttamente in corpo celeste: cerca di rendersi “comprensibile”, nel senso di una comprensione anche fisica, una partecipazione empatica, un’inclusione: lo fa per noi. È proprio questo che fanno i demoni.


Sembra quasi inevitabile, dunque, che dopo Lilith, l’organizzazione di Inequilibrio ci metta a confronto con Adamo, nell’attesa anteprima nazionale di All About Adam, di Giuliano Scarpinato, con il danzatore Cristian Cucco, unico corpo in scena, nello spazio magnifico dell’Arena del Castello Pasquini, a Castiglioncello.

Si comincia dal rimando biblico della polvere, che ricopre la scena, mentre Adamo/Cucco, in completo scuro elegante, con giacca aperta sul petto nudo, inizia la sua grammatica coreografica composta di movimenti appuntiti, geometrici, ciclici, sclerotici, contraddittori a volte, tagliando lo spazio linearmente o in diagonale. Esiste una trama, invisibile, nella sua narrazione di omissioni: essa è suggerita dalla sua presenza indiscutibilmente luminosa e amara, apparentemente soggiogata dall’urgenza coreografica. Improvvisamente, mentre la polvere dello spazio e del tempo si alza e si diffonde sul pubblico, lasciando tracce bianche sull’abito del danzatore, dagli altoparlanti si fa largo un montaggio di voci riconoscibili di uomini del nostro tempo recente o della seconda metà del secolo scorso. Sono estratti di dichiarazioni, quasi sempre riflettono i molti aspetti della mascolinità tossica, arroganza, violenza verbale, omofobia, sessismo (Craxi, Berlusconi, Grillo…), a volte esprimono l’opposizione malinconica (di Pasolini), il rovesciamento rivoluzionario (di Villaggio). La fatica di Cucco è quella di proseguire il suo processo di trasformazione, quasi di lotta, nonostante l’inevitabile esercizio di riconoscimento sonoro che una parte del pubblico può ritrovarsi a fare, nell’ascoltare l’orribile coro mascolino. Sentire la voce di Berlusconi, cui è stato recentemente tributato un lutto nazionale, che sostiene che sia «meglio essere appassionato delle belle ragazze che essere gay» continua a strappare risolini di disprezzo tra il pubblico, rendendo ancora più complesso il lavoro del corpo del danzatore, che solleva la polvere e cerca, sempre più soffocato, il suo senso. La regia lo ostacola, quasi lo nasconde con rabbia, perché una semplice frase, raccontata così di sfuggita, tra i denti, nel mainstream istituzionale e televisivo, può davvero cancellare un’esistenza, la sua performance, la sua ricerca.

Per questo, l’ultima parte di All About Adam rimuove completamente il montaggio di voci e lo sostituisce con un brano che accompagna l’evoluzione solitaria di Cucco, non più spigoloso e autodistruttivo, bensì morbido, leggero, rotondo. La circolarità prende possesso di tutto il suo universo fisico – e qui la consulenza di Alessandro Sciarroni diventa piuttosto visibile – fino a raccogliere in uno sguardo, circolare anch’esso, tutti gli occhi del pubblico, in uno scambio complice, intenso, profondo. L’applauso finale è soprattutto al lieto fine, limitato nello spazio e nel tempo di una sera, purtroppo, del danzatore, del corpo che vince, rispetto ai fantasmi del nostro recente passato e presente. Detto della meraviglia della presenza di Cucco, resta da aggiungere che di questo lavoro di Scarpinato mi convince poco la schematicità del suo stato attuale, un certo taglio grezzo che divide le due parti dello spettacolo – nonostante la fluidità della proposta fisica del danzatore in scena; mi conquista invece la sua necessità politica di posizionarsi all’interno di un piano chiaro e privo di fraintendimenti, sia sul piano etico che estetico. Una lotta amara e necessaria che ha bisogno ancora di andare in scena più e più volte per trovare la sua organicità.

All about Adam - foto di Valeria Manna


7 LUGLIO

THEM - Gruppo Nanou - prima nazionale

Castello Pasquini, Castiglioncello


GLI ANNI - Marco D’Agostin

Teatro Nardin, Rosignano Marittimo


Nell’estetica di Gruppo Nanou – che avevo incontrato personalmente solo un’altra volta, ospiti del Teatro Akropolis con l’interessante progetto Alphabet, ma di cui ho poi nel tempo continuato a seguire le tracce attraverso i racconti e le recensioni di altre riviste – mi sembra di poter riscontrare un’alta considerazione della portata intellettuale ed emotiva degli spettatori, in relazione con il proprio processo creativo: una complicità, meglio una responsabilizzazione. Almeno in Them, questa caratteristica è evidente. Qui infatti, gli spettatori svolgono una funzione insostituibile di comunità pensante, in integrazione della proposta artistica di Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci, ideatori e curatori di quest’azione, oltre che tra i fondatori del gruppo. Durante la performance, due danzatori ripetono ciclicamente una sequenza agendo in due piccole sale comunicanti, separate dal pubblico da delle corde. Gli spettatori possono assistere allo spettacolo aggirandosi con relativa libertà nello spazio di sale e corridoi attigui ad essi consentiti. A questo proposito, va detto che le magnifiche sale del Castello Pasquini di Castiglioncello sono state qualcosa di più di un luogo semplicemente suggestivo, per questa prima nazionale: accedere a questi spazi rinascimentali ha contribuito a rafforzare l’atmosfera misterica, enigmatica, della proposta. Nel contempo, la struttura di Them sembra potersi articolare con agilità in spazi differenti e, probabilmente, con ampi margini di cambiamento in relazione alla percezione del pubblico. Per assistere a ciò che i danzatori eseguono dal vivo, la performance prevede (almeno) due ipotesi di fruizione. Una è quella di seguire l’azione vagando e scegliendo il proprio punto di osservazione – a volte, letteralmente sbirciando da una porta – pur accettando l’impossibilità di catturare nella propria visione l’intera partitura, dato che gli interpreti occupano le due sale a loro disposizione ora insieme, ora alternatamente. L’altra è quella di posizionarsi di fronte agli schermi disposti sul pavimento in più punti del percorso dedicato al pubblico. In ognuno di essi, si può vedere ciò che sta accadendo in scena, ma sotto angolature diverse, il che permette a chi guarda i differenti schermi di ampliare le possibilità di visione della stessa azione. Uno di questi visori, in particolare, riproduce la performance attraverso le riprese in tempo reale che la stessa Rhuena Bracci effettua muovendosi tra i suoi danzatori, vestita di nero e danzando così ella stessa la propria invisibilità, interna e allo stesso tempo esterna alla coreografia.

Il lavoro è complessivamente coerente e ingegnoso, ma un breve approfondimento a parte merita, a mio avviso, la scelta del titolo, Them (Loro). C’è dentro l’idea di un caleidoscopio di punti di vista (vagamente “hitchcockiana” per la sua tensione paranoica irrisolta) dato che nel pronome potrebbe nascondersi chiunque: i danzatori, impegnati nell’estenuante ricerca di senso della propria coreografia sottoposta alla dissezione anatomica della visione; i due curatori responsabili del progetto che, in ruoli differenti, costituiscono i poli interni/esterni dell’azione (l’uno supervisionando l’andamento della performance, l’altra agendo nello spazio protetto dei danzatori con il proprio dispositivo/occhio in mano); gli spettatori che si aggirano e che portano con sé la regia della propria partecipazione visiva, potenziata (o quasi disorientata) dagli schermi; gli schermi stessi, che digeriscono la cattura di corpi dall’altra parte della parete e li trasformano in immagini, che in comune con quei corpi hanno soltanto il movimento e, soprattutto, il tempo).

Sollevo due questioni ulteriori, da porre sul tavolo delle riflessioni. La prima riguarda la durata della performance: l’accesso è consentito a un numero limitato di spettatori per volta, il che impone all’organizzazione di suggerire al pubblico di interrompere il proprio esperimento di osservazione dopo un certo tempo dall’inizio dell’azione, per poter predisporre tutto per il nuovo ingresso di altre persone. Ho percepito come prematura la richiesta di lasciare lo spazio, in un momento in cui ero ancora nel pieno della mia esperienza. Ma sarei curiosissimo di scambiare opinioni con altre persone del pubblico, al riguardo.

Un secondo pensiero è legato alla presenza delle corde che definiscono lo spazio artistico e lo separano da quello del pubblico. Ho la sensazione che in questa barriera ci sia qualcosa di potente. un nodo estetico centrale, di cui ho avvertito la tensione, senza coglierne in pieno la portata, almeno sul momento, cercando però di continuare a pensarci, molto tempo dopo, a performance conclusa. Quelle corde erano il luogo del Them, corrispettivi degli schermi invalicabili, superfici sfuggenti del caleidoscopio? O evocano forse un altro Them, ancora più esterno all’azione, a tutti i corpi presenti, qualcosa di invisibile, che divida, per legge, per regola, per stato di cose, un mondo da un altro? Chi o cosa sono queste corde? Da chi ci proteggono o da che ci escludono? O forse è la stessa performance a dover essere protetta? Gli artisti? E se non si trattasse di protezione ma di semplice logica, come espressione di un’esigenza geometrica, un nitore che permette al cervello di organizzare con più facilità le proprie idee?


Them - foto di Valeria Manna


La giornata si conclude, per l’O.C.A, con la visione di Gli Anni, il più recente lavoro di Marco d’Agostin, coreografo, danzatore, performer, ormai tra i maggiori artisti italiani contemporanei, in crescente e costante affermazione. Le due creature precedenti di D’Agostin che avevo visto –First Love e Best Regards– fortemente dissimili tra loro, avevano però tratti in comune, il più rilevante dei quali, per me, stava nel tentativo di mettere in scena con il massimo dell’onestà possibile un orizzonte sentimentale, un frammento di un discorso amoroso, che attraversava l’autobiografia per spostarsi dal centro di sé e incontrare qualcosa di sconosciuto. Un movimento decentrato, insomma, che, dei sentimenti espressi, manteneva la temperatura mutandone le forme. Gli Anni, a mio avviso, non si discosta da questa estetica: come per altri lavori di D’Agostin, ci si accosta come davanti a un mistero. E anche qui, come altrove, l’autobiografia diventa incandescente materiale drammaturgico, maa in questo caso il corpo scenico che offre la tensione del proprio archivio di posture e ricordi è quello della stupenda Marta Ciappina, performer tra le più poetiche e importanti attualmente in Italia, interprete, tra gli altri, di Michele Di Stefano, Alessandro Sciarroni (e lo stesso D’Agostin, per Olympic Games, che purtroppo mi son perso). E non è cosa da poco contare sulla sensibilità e sulla devozione di questo corpo che danza e gioca, al tempo stesso inabissandosi in una serietà tragica, per riemergere, più piccola, più fragile, divertente, all’improvviso, con i suoi oggetti scenici minimali, la sua partitura di episodi che scandiscono una vita, attraverso la disposizione nello spazio di pochi oggetti scenici, così lontani e dispersi tra loro, da far percepire con forza il vuoto della memoria che li separa. La coreografia, proprio attraverso gli oggetti, dialoga con la drammaturgia in forma sempre imprevedibile, costruisce, decostruisce: ora allevia e alleggerisce, ora con un gesto, un dettaglio, immerge Gli Anni in una complessità difficilmente districabile. Ci sono numeri che improvvisamente si congiungono e compongono date, c’è un telefono giallo, una statuetta di un cane, la tessera del Partito Comunista del tempo di Occhetto, ci sono lettere d’amore, canzoni meravigliose di un’altra epoca – Eternità di Ornella Vanoni, la più struggente. E c’è una pistola, anche se giocattolo. Perché al centro di tutto, come non potrebbe essere altrimenti, però senza farsi notare, ovvero senza climax, scorrendo al fianco di tutto il resto, delle piccole e grandi cose della vita, c’è anche la morte del padre della danzatrice, ucciso dalla mafia, davanti alla propria casa. C’è infine e soprattutto uno scioglilingua che funge curiosamente da ossatura dell’intera drammaturgia “Sono andata al mercato e ho comprato un limone, due limoni, tre limoni…” e che serviva, da bambini, per esercitare a scandire le parole, a concentrarsi in una progressione logica a non ingarbugliarsi – o, al contrario, a sbagliare apposta a dire i numeri e a ridere o far ridere, com’è più probabile. Ora Ciappina riprende quella cantilena e, senza alcuna possibile esitazione, comincia a contare idealmente i limoni, fino a dieci, a venti e ancora oltre. I limoni diventano anni, tra gli anni si disseminano indizi, tramite sequenze coreografate, frammenti parlati alternati a silenzi danzati. Non si ingarbuglia, non apposta, non per far ridere, Ciappina, e ci comunica una cosa molto precisa: l’arte ha solo una direzione, quella di andare fino in fondo.

E arrivato al momento dello svelamento di un dolore, compie il suo percorso a ritroso, ripercorrendo gli stessi oggetti di scena, ricostruendo la biografia di un papà – e di un’infanzia e di una generazione e di molto altro – che non c’è più, senza mai entrare in un dettaglio che non sia anzitutto agito.

Temo che non aver mai letto Gli Anni di Annie Ernaux, al quale questo progetto dichiara ispirarsi – ma vi è anche un’altra ispirazione, quella pop dell’omonima canzone di Max Pezzali – abbia probabilmente limitato la mia capacità di accesso alla questione del rapporto tra letteratura e performance, rispetto al quale D’Agostin/Ciappina prendono una posizione, benché a mio avviso questo aspetto non abbia ricoperto che un territorio marginale rispetto alle emozioni che questo spettacolo mi ha regalato.

Su tutto, piuttosto, emerge una consapevolezza del mezzo teatrale che è anche giocosità. La danzatrice diventa bambina quando approfitta, come dice, dell’assenza del coreografo («dato che oggi Marco non c’è», sarà stato vero?) per proporre modifiche al lavoro concordato e il pubblico diventa bambino quando si fa complice del suo gioco. E proprio come bambini innamorati, Ciappina e uno spettatore ballano guancia a guancia, stretti, con gli occhi chiusi, nello spazio della platea, in un momento che sembra fuori dallo spettacolo e invece è tutto dentro.

Proprio questa è la caratteristica che, nel tempo, D’Agostin sta maturando con sempre maggiore sensibilità: c’è un allargamento del confine della rappresentazione, un’espansione della dimensione teatrale, senza mai cedere alla tentazione di uno spazio altro, senza mai perdere l’amore per il noi, qui e ora. D’Agostin propone un sistema teatrale integrato nella vita – nella nostra, però, non nella sua: un teatro che ci attraversi e ci intercetti. Niente di ombelicale o autoreferenziale, dunque. Quando dico che in Gli Anni tutto è dentro, voglio dire che la grandezza di questo spettacolo – e di questo artista – sta nel costruire un grande Dentro, nel quale l’unica cosa che conta è eliminare ciò che è superfluo, accettando però ogni peso, ogni dolore, ogni gioco, senza compromessi o esitazioni.


Gli anni - foto di Valeria Manna

8 luglio

CITERONE / CUMA - Michele Ifigenia Colturi - Tyche

Teatro Nardin, Rosignano Marittimo


MATERNITÁ - Fanny & Alexander - prima nazionale

Teatro Solvay, Rosignano Solvay


L’ultimo giorno di O.C.A. a Inequilibrio è interamente dedicato alle due anime di Rosignano, Marittimo e Solvay. Prima è il turno delle stradine del comune di Rosignano Marittimo inerpicato intorno a una bella piazzetta che si srotola a valle verso un grande campo da calcio - dove una famiglia di francesi sfida il caldo del pomeriggio, tre contro tre - e il suggestivo Teatro Nardini, intitolato allo storico parroco, Don Giovanni Nardini, che tanto si spese per proteggere - se non proprio guidare - il suo paese durante l’occupazione nazista: si tratta di un antico cinema, riaperto al pubblico nel 2007 e da molti anni ormai reso perfettamente attrezzato dallo staff tecnico di Armunia, andando a costituire uno degli infiniti e pregevoli spazi performativi della provincia italiana. Qui assistiamo a due performance ideate e coreografate da Michele Ifigenia Colturi, artista emergente della danza contemporanea alla guida di Tyche, un gruppo di performer e dramaturg nato in seno alla Civica Paolo Grassi e alla Conia, scuola sostenuta dalla Societas Raffaello Sanzio. Questa è una storia di talentuosi allievi di prestigiosi maestri, cresciuti con le idee chiare e capaci già di costruire le basi di una pratica artistica di prospettiva. È un gruppo giovane, che non conosco. Entrambe le creature presentate al Festival sono datate - stando al sito ufficiale di Tyche - al 2020. Avrei bisogno di assistere nuovamente a entrambe le performance per poter elaborare un testo più solido, ma mi sembra per lo meno di poter evidenziare tre elementi basilari che ho riscontrato in entrambe le creazioni:

1) la loro ricerca si avventura in un territorio di danza senza parole dette ed è una scelta precisa che concentra l’intera percezione del pubblico su una dinamica muta. Non per questo la bocca non danza, al contrario, le labbra, il viso, gli occhi, le guance, i denti, la gola, costruiscono un’orchestra visiva straordinariamente vitale. Quando, per esempio, Federica D’Aversa - in Cuma - spalanca bocca e occhi immersa in un urlo senza suono non dà alcuna idea di finzione, è esattamente una creatura che inscena sì un urlo, ma in quanto minaccia dell’apertura di un antro cupo nel quale si può intravedere non il suo grido temibile, ma il nostro, di orrore. Allo stesso modo, Enzina Cappelli e Andreyna de la Soledad - in Citerone - lavorano, in coppia e singolarmente, sulla deformazione del proprio viso attraverso le dita che tirano, schiacciano, coprono, esplorano i limiti di uno stato solo apparentemente umano, decontrazione, un po’ mostruosa un po’ giocosa, di una monumentalitá;


Cuma - foto di Valeria Manna


2) la compagnia cerca una plasticità soprattutto visiva, nel senso che lavora in modo dettagliato sull’effetto luminoso e sul suo modo di rifrangere, nascondere, dorare, mutilare il corpo. I disegni luce di entrambi gli spettacoli, assai diversi tra loro, hanno un elemento in comune: sono studiatissimi, decisivi allo stesso modo dei corpi che si dinamizzano al loro interno: una leggera gradazione in più o in meno altererebbe il lavoro stesso di drammaturgia, di coreografia. La luce non illumina, piuttosto narra e costituisce il legame poetico con la mitologia greca e romana, assai cara a Colturi e al suo gruppo. Non illude, insomma, non crea un effetto ottico, al contrario nega la presenza piena delle ombre della classicità - e forse è l’esatto esercizio del tempo sulle antiche, ormai perdute narrazioni antiche;


3) non importa quanto si perda, rispetto alla relazione con il pubblico: tutto il dettaglio possibile diventa invisibile, si moltiplica fino ad essere infinitamente piccolo, rinsalda la dimensione drammaturgica a quella danzata, espone una cura cesellata dello spazio e del tempo.

La brevità delle due esibizioni consentono più facilmente al pubblico di accettare una relazione intensa con questa sorta di teatro di figura dove corpi statuari, disumanizzati, emergono da un incubo o da un mistero. Le danzatrici di Citerone, sintesi di Baccanti, esaltano il loro essere in due, alla fine dello spettacolo, quando portano in scena un tavolo, si siedono alle due estremità, una di fronte all’altra, offrendo il fianco al pubblico, mangiano il loro panino, bevono dell’acqua, sempre senza parlare.

Considerati entrambi gli spettacoli, è l’immagine che mi ha colpito di più. Certo, il cannibalismo è alla base del mito di Dioniso, che da piccolo ebbe la sventura di farsi divorare dai Titani - e poi Zeus lo vendicò e al termine del complesso processo creativo che si affianca a ogni proposito di vendetta di questo strabiliante dio, nascono addirittura gli esseri umani. C’è poi il Penteo fatto a pezzi della tragedia di Euripide. E il banchetto che segue l’orgia. Ma per me, quel cibo, consumato davvero, con calma, quasi con sfrontatezza, senza altra frenesia se non l’appetito e il bisogno, è il senso profondo del loro lavoro, il piano più letterale di un’operazione che fa di tutto per nascondere la propria complessità dietro una superficie bidimensionale, tagliente, incisiva. Nella poetica di Tyche, si potrebbe dire, l’essenziale è visibilissimo agli occhi.


Citerone - foto di Valeria Manna


Maternità di Fanny & Alexander, in prima nazionale, è l’ultimo spettacolo che l’O.C.A. riesce a vedere prima di lasciare, già con nostalgia, la bella atmosfera del Festival - e della vicina e da noi adorata Livorno. Lo spettacolo prende spunto dal libro Motherhood (2018) della scrittrice ed attrice canadese Sheila Heti, tradotto da Martina Testa per Sellerio nel 2019, e accede al delicatissimo spazio di riflessione di un’autrice quarantenne senza figli che si interrogava sulla propria posizione rispetto al concetto stesso di maternità, sia su un piano emotivo, specificamente calato nella propria realtà, che su uno sociale, più ampio. L’operazione di Fanny & Alexander si articola intorno a una specifica idea drammaturgica, che coinvolge costantemente e in tempo reale il pubblico nello sviluppo della narrazione - portata in scena dalla sola Chiara Lagani, coordinata registicamente da Luigi De Angelis, con Vinx Scorza all’architettura del software - attraverso un telecomando con il quale ogni spettatore esprime un’opinione in risposta alle domande poste dall’attrice. Di fatto, la maggioranza dei voti, calcolata immediatamente dopo la digitazione dell’opzione scelta individualmente, e proiettata su uno schermo che sovrasta la scena, conduce Lagani ad accedere a uno o a un altro piano della drammaturgia. Le scelte che il pubblico è invitato a fare variano molto. Possono riferirsi all’hic et nunc spaziale e scenico, per esempio quando l’attrice chiede se il cerchio di luce intorno a sé debba essere più o meno grande, se sia necessario applicare del nastro adesivo in un punto anziché in un altro, eccetera; oppure sono legate a opinioni profonde che coinvolgono un posizionamento sociale e culturale di ciascuno di noi rispetto a una sfera di esperienze - di maternità, per esempio, ma non solo - o temi specifici - aborto, maternità surrogata, adozione. Il pubblico è parte attiva, dunque, accolto e condotto con complicità da Lagani che si pone subito la questione dell’io monologante, esplorandone la problematicità: la frase “io sono incinta” che sonda il terreno del pubblico per sentire se secondo noi spettatori è vero o no è già un potente svalicamento del confine tra la propria condizione fisica e biologica, il proprio ruolo artistico, la responsabilità dell’interpretazione di una figura esplicitamente autobiografica - quella di Sheila Heti, in particolare. Noi, seduti in semicerchio, nello spazio intimo di una piccola sala, strutturata in modo da creare con immediatezza una dimensione percettiva diretta, apparentemente priva di filtri, scegliamo di vivere l’ubiquità dell’io-Lagani che ci propone la sua avventura drammaturgica a scelta multipla, nascondendo o proteggendo il nostro personale vissuto nell’anonimato di un’opzione digitata su un telecomando. Salvo poi, a colpi di maggioranza, partecipare al procedere dell’azione scenica con più o maggiore adesione, sentendoci diversi, isolati, rispetto al pensare comune dei nostri contemporanei, o magari invece sostanzialmente in linea con il sentimento medio della sala. La capacità di sondare l’animo del pubblico, l’interesse di coglierne la diversità, replica dopo replica, lo stimolo a rendere problematica la stessa idea di partecipazione a un rito collettivo - prendendo consapevolezza del fatto che, nello stesso spazio, per esempio, c’è chi potrebbe avere un’opinione diametralmente opposta alla nostra, in temi che ci stanno particolarmente a cuore - è l’elemento di maggiore forza e incisività della proposta di Fanny & Alexander. La drammaturgia si spinge oltre: costruisce infatti una struttura tripartita, in cui in una lunga prima parte, il testo di Maternità - ovvero la messa in scena della propria posizione delicatissima in merito al tema proposto - viene esposto in forma molto dialogica rispetto al pubblico, con particolare attenzione alla dimensione performativa, alla relazione stretta tra io-Lagani, l’azione che compie e la nostra esperienza. C’è una parte intermedia, in cui non vi è alcun essere umano in scena - Lagani è scomparsa dietro un telo - e un’atmosfera sonora elettronica ci pone direttamente in relazione con lo schermo che ci esplora, ci intervista, ci analizza. Maternità ci somministra un questionario, digitiamo la nostra risposta, ci specchiamo o meno nella maggioranza, ci guardiamo intorno con curiosità. Infine un terzo momento dello spettacolo riporta in scena Lagani, con un altro vestito e un’altra proposta drammaturgica. Stavolta siamo in un’azione immaginata, in un contesto narrativo di una donna - che Lagani interpreta ora con distacco brechtiano, ora con improvvisa immersione partecipata - che incontra per strada un’amica che sta per partorire e, a partire dalla loro conversazione che riporta, si dà inizio ad altri incontri misteriosi e drammatici lungo l’arco della giornata della protagonista. Anche in questa sezione il pubblico può scegliere, ma sono opzioni specificamente legate alla narrazione, esprimiamo il nostro desiderio su far accadere l’una o l’altra azione, ma poi abbiamo anche la sensazione che presto o tardi quello che, sempre a colpi di maggioranza, abbiamo preferito evitare, poi sarebbe accaduto lo stesso.

L’incertezza drammatica di chi non ha ancora trovato una risoluzione nella propria posizione sulla maternità, delegata addirittura a un pubblico di sconosciuti; la fatalità di un quotidiano che rimanda continuamente allo stesso insistente, ostinato pensiero; l’esposizione pubblica di un dramma individuale, senza possibile soluzione: tutto questo è Maternità, spettacolo intelligente quanto delicato, potente e quasi indigesto nella prima parte, curioso quanto invadente nella seconda, poetico e onirico nella terza, secondo una traiettoria drammaturgica sicuramente studiata e, quindi, orientata verso l’irresolutezza, la dispersione di ogni solidità, il ritorno al vago, che è dolore per chi sa quanto è incandescente il cuore di Maternità, leggerezza, respiro, nuvola, per chi non ci è mai passato in mezzo.



14.610

di e con Claudia Catarzi

musiche di Julien Desprez

una produzione Company Blu


Lilith

di Rita Frongia

con Angela Antonini

luci Antonella Colella

organizzazione Adriana Vignali e Frida De Vreese

produzione COMPAGNIA47 (ex Esecutivi per lo Spettacolo) con la collaborazione del TEATRO METASTASIO/FESTIVAL CONTEMPORANEA col contributo della Regione Toscana grazie a Teatro Drama


All About Adam

ideazione e regia Giuliano Scarpinato con Cristian Cucco ambiente sonoro, luci Giacomo Agnifili consulenza alla drammaturgia della danza Alessandro Sciarroni

produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro nazionale - focus CARNE

in collaborazione con Fondazione Luzzati - Teatro della Tosse progetto vincitore bando di residenze Toscana Terra Accogliente attraversamenti residenziali Straligut Teatro – Siena Giallomare Minimal Teatro – Empoli centro di residenza della Toscana Armunia / Capotrave Kilowatt si ringrazia Fattoria Vittadini


Them

coreografie Marco Valerio Amico, Rhuena Bracci

con Carolina Amoretti, Andrea Dionisi scene e luci Marco Valerio Amico camera mobile Rhuena Bracci

produzione Nanou Associazione Culturale con il sostegno di E production con il contributo di MIC Regione Emilia-Romagna Comune di Ravenna Progetto vincitore di RESIDENZE DIGITALI 2022 a cura di Centro di Residenza della Toscana (Armunia – CapoTrave/Kilowatt), in collaborazione con AMAT, Fondazione Romaeuropa Fondazione Piemonte dal Vivo/Lavanderia a vapore Centro di Residenza Emilia- Romagna (L’arboreto-Teatro Dimora / La Corte Ospitale) Teatro della Tosse, Zona K.


Gli anni

di Marco D’Agostin con Marta Ciappina suono e grafica Luca Scapellato luci Paolo Tizianel conversazioni Lisa Ferlazzo Natoli, Paolo Ruffini, Claudio Cirri video editing Alice Brazzit costruzione elementi scenici Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa promozione, cura Damien Modolo organizzazione Eleonora Cavallo amministrazione Federica Giuliano produzione VAN coproduzione Centro Nazionale di Produzione della Danza Virgilio Sieni Fondazione CR Firenze Piccolo Teatro di Milano - Teatro d’Europa Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale Festival Aperto - Fondazione I Teatri; Tanzhaus nrw, Düsseldorf; Snaporazverein

sostegni L’arboreto – Teatro Dimora | La Corte Ospitale Centro di Residenza Emilia-Romagna CSC/OperaEstate Festival Veneto

con il supporto di Istituto Italiano di Cultura di Colonia MiC-Direzione Generale Spettacolo Tanzhaus nrw, Düsseldorf, nell’ambito di NID international residencies programme


Citerone

coreografia Michele Ifigenia Colturi dramaturg Ciro Ciancio, Riccardo Vanetta con Enzina Cappelli e Andreyna De la Soledad co/produzione Ariella Vidach AiEP


Cuma

coreografia Michele Ifigenia Colturi

dramaturg Ciro Ciancio, Riccardo Vanetta performer Federica D’Aversa

suono Tarek Bouguerra produzione Anghiari DanceHub, Ariella Vidach AiEP


Maternità

regia e luci Luigi De Angelis drammaturgia Chiara Lagani con Chiara Lagani

cura del suono e supervisione tecnica Vincenzo Scorza organizzazione Maria Donnoli, Marco Molduzzi

produzione E Production/Fanny & Alexander


L'O.C.A. ringrazia Valeria Manna per il lavoro fotografico e tutto lo staff di Inequilibrio per l'accoglienza, in particolare l'addetta stampa Francesca Corpaci per l'eccellente lavoro di coordinamento e supporto.

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oca, oche, critica teatrale
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