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Matteo Valentini

La Luna nel Pozzo 2023 | Sagra e non festival

Vedo studentesse universitarie piegate sulle sessioni di settembre, anziani che sonnecchiano al fresco dei condizionatori, misteriosi ultratrentenni con nessun libro in mano ciondolare tra il proprio pc e il bar – gli occhi, inevitabilmente, sulle gambe abbronzate delle sunnominate studentesse. Il calendario segna la fine dell’estate e io sono seduto a un tavolo della Biblioteca Berio di Genova, cercando di mettere insieme il reportage per cui tra il 10 e il 16 agosto sono stato ospitato al festival La Luna nel Pozzo di Ostuni, in provincia di Brindisi. Faccio parte dei misteriosi ultratrentenni e scrivo di teatro.


«Scrivo di teatro», così dico a tutti quelli che incontro il primo giorno. Alcuni mi conoscono già: a loro il direttore artistico, Alessandro Lucci, ha evidentemente annunciato il mio arrivo. «Sei tu il critico?», mi chiedono. Scopro quanto questa etichetta, in contesti non frequentati da giornalisti e addetti ai lavori, porti con sé un misto di sospetto, perplessità e sorpresa – sarà anche la discrasia evidente tra me e l’immagine tipizzata di intellettuale, con il sudore che mi imperla la fronte e il cuscino che mi spunta prepotente dallo zaino. Che fa, qui, un critico? Che fa, in generale, un critico? Mah, testimonia, valuta, analizza… Giudica? In un certo senso, sì. E chi è per giudicare? Che diritto ne ha? «Sei un’artista? No. E che cazzo ti interessa a te dell’arte?», diceva un capolavoro nato non lontano da qui, nel sud del sud dei santi. Le sento queste obiezioni, anche se davanti a me vedo sorrisi e mani tese, mi rimbalzano in testa dal momento in cui mi accorgo che questo non è un festival come gli altri. È, mi verrà spiegato poi, una sagra. Abbandono, allora, il nome di questa vetusta professione e mi aggrappo alla mia ragione d’essere qui, a 12 ore di macchina da casa. Non so se sono un critico, ma sì, scrivo di teatro e raccolgo materiale per un reportage, perché della Luna nel Pozzo, almeno per quanto ho potuto constatare, in 21 edizioni nessuno ha scritto mai.


Robert McNeer e Pia Wachter_Foto di Alberto Catera
Robert McNeer e Pia Wachter | Foto di Alberto Catera

Mentre in Italia, nel 1986, esce il primo numero di Dylan Dog ed emerge il caso del vino al metanolo, Robert McNeer e Pia Wachter arrivano in Italia. Solo diversi anni più tardi avrebbero acquistato i sei ettari di terreno di una masseria vicino a Ostuni, per la precisione a Contrada Foragno, fondando così La Luna nel Pozzo. In quel momento sono un ex marinaio americano con formazione accademica e una maestra elementare svizzera, si sono conosciuti in una scuola di mimo di Zurigo; lì incontrano Carlo Formigoni, che nel 1971, dopo l’esperienza al Berliner Ensemble di Bertolt Brecht, ha fondato il Teatro del Sole, con cui ha avuto inizio il teatro ragazzi italiano, e nel 1981 il Teatro Kismet di Bari. Lo seguono in Puglia, entrano a far parte del Kismet e, dopo due mesi di prove per La tragica storia dell’Imperatore Federico II di Svevia, iniziano la professione di attori: «Erano anni d’oro per il teatro ragazzi», racconta McNeer, seduto nello spiazzo davanti all’attrezzeria. «A volte stavamo in tournée sette mesi l’anno. Dopo 13 anni, però, sentivo vaghi impulsi di sperimentazione che non trovavano spazio nel Kismet. Non mi interessava il rapporto con le istituzioni che la compagnia stava cercando e, con Pia, eravamo stanchi di stare in giro per la strada, nell’urbano. Cercavamo anche un luogo adatto a far crescere nostra figlia. Nel 1999 decidemmo, dunque, di tornare qui, dove Formigoni ci ospitò per la prima volta, e di regalarci questo posto».

La luna nel pozzo_Foto di Clara Mammana
La luna nel pozzo | Foto di Clara Mammana

Dopo anni di lavoro e risistemazione dello spazio – peraltro ancora in continuo divenire – l’iniziale festa tra amici in cui assistere a spettacoli per bambini evolve magmaticamente, fino ad assumere la forma della ventunesima edizione diretta da Alessandro Lucci, attore specializzato in teatro di comunità e, come dice lui, “innestato” alla Luna nel Pozzo sei anni fa. Me la racconta un pomeriggio davanti a un caffè. «La prima settimana è stata espressione del nucleo originario. Come 21 anni fa Pia e Robert decisero di incontrare i propri amici durante le notti di luna piena, così durante la prima settimana abbiamo proposto una serie di spettacoli, concerti e intrattenimenti dalla sera alla mattina seguente. Durante la seconda settimana abbiamo dato spazio ad altre due anime di questo luogo, il teatro ragazzi e il teatro con disabili. Questa terza e ultima settimana ha invece una dimensione più festivaliera, ci sono feste, giochi, spettacoli, benché io preferisca parlare di sagra».


Alessandro Lucci_Foto di Alberto Catera
Alessandro Lucci | Foto di Alberto Catera

L’impulso originario della sagra, spiegano Lucci e McNeer, è infatti quello di condividere l’abbondanza. «C’è una generosità di spirito – afferma l’artista statunitense – che ha a che fare, innanzitutto, con la nostra generosità individuale, ma in particolar modo con l’economia dell’abbondanza della natura. Quando tu hai troppo di un frutto, non lo butti, ma lo doni, lo celebri. Noi abbiamo troppo teatro e lo celebriamo». Gli artisti di passaggio, infatti, sono invitati non solo a mettere in scena i propri spettacoli, ma a restare quanto desiderano all’interno del festival, per ideare attività per i bambini e gli adulti che affollano ogni sera La Luna nel Pozzo, per affiancare organizzatori e volontari nell’allestimento degli spettacoli, nella pulizia degli spazi, nella preparazione dei pasti, oppure semplicemente per entrare in contatto con gli altri partecipanti, unendosi, così, in una comunità operante.


La luna nel pozzo_Foto di Clara Mammana
La luna nel pozzo | Foto di Clara Mammana

Sono innumerevoli le occasioni generate da artisti e volontari per animare le energie del luogo. Proverò ad abbozzarne alcune: la mostra in progress dove Sara Gagliarducci chiede al pubblico di farsi immortalare con una Polaroid e di scrivere su un foglietto la risposta al quesito Cos’è l’amore?; la Lettura della borsa in cui Caterina Palmucci estrosamente elabora un discorso più o meno esistenziale attraverso qualunque cosa sia possibile trovare nella borsetta, sporta o tasca della persona che ha davanti; i racconti marinari di Alberto Catera e Francesca Boldrin che, dal dojo, ci trainano all’incontro con un pesciolino d’oro o in vorticosi sabba notturni sulla riva del mare; la Giostra degli odori guidata da Natascia Fogu, che sottopone ai nostri olfatti diverse sostanze (dal caffè, al lucido da scarpe, al fieno) chiedendo di raccontare al nostro sparuto gruppo le immagini e gli eventi del passato che risalgono sulla superficie della nostra coscienza.

Caterina Palmucci_Foto di Clara Mammana
La lettura della borsa | Foto di Clara Mammana

Un’esperienza che Fogu permette di sperimentare, in scala ben più estesa, anche nel labirinto di Katabasis, spettacolo di teatro sensoriale che, delle svariate anime de La Luna nel Pozzo, rappresenta la più mistica e allo stesso tempo più introspettiva, quella che, nel rapporto tra l’essere umano e le forze della natura, trova la strada per immergere lo spettatore all’interno del proprio vissuto. Una sera, all’orario concordato, mi stacco dalla folla assiepata nello spazio centrale e mi dirigo verso il buio degli orti, scortato da una guida silenziosa che mi fa strada con una lanterna. Trovo ad accogliermi Ivana Franceschini, collaboratrice di Fogu, vestita con una lunga tunica scura. Le luci, l’odore di cibo, il chiacchiericcio delle persone sono distanti e noi comunichiamo bisbigliando appena, mentre entriamo all’interno del camminamento formato da pareti di tessuto nero. Franceschini guida la mia discesa – questo significa katábasis: mi racconta antichi miti di formazione della Terra; regola i miei sensi grazie ad alcuni strumenti (il più impressionante, uno specchio che aderisce all’apice del naso e mostra il cielo stellato mentre cammino); nel punto più estremo del percorso, bendato e sdraiato su un sacco di fieno, mi domanda dove sia il mio nido, in quale luogo possa ritenermi al sicuro. È senz’altro il momento più intenso e, allo stesso tempo, più placido e meno spettacolare dell’intera esperienza, preparato minuziosamente da un lungo processo di ambientamento nello spazio, di acquisizione di fiducia verso la conduttrice e di progressiva deformazione del mio impianto percettivo. Per quanto sia interessante, a livello critico, l’utilizzo dello spazio e degli strumenti scenici da parte di Fogu, tornando al crescente rumore di festa mi sento assillare da una domanda che non appartiene alla sfera estetica, ma a quella intima, viscerale, che riemergerà più volte in altri momenti del festival.

La luna nel pozzo_Foto di Clara Mammana
La giostra degli odori | Foto di Clara Mammana

FARòFILò inizia proprio con Alesandro Lucci che chiede a ciascuno spettatore di porsi una domanda, senza rivelarla a nessuno. Dietro di sé ha posto un palchetto e, dietro ancora, un ombrellone con su appesi diversi cartoncini. Chi se la sente, dice, è invitato ad alzarsi, sceglierne uno e porgerglielo: disegnata sopra troverà una storia e quella sarà la risposta alla propria domanda. Siamo in un piccolo boschetto sul retro della masseria e l’atmosfera è quella della scommessa: tutti ci chiediamo se Lucci riuscirà a tener fede al suo impegno da indovino. Dopo essermi passato e ripassato la mia domanda in testa, mi alzo e, senza guardare il disegno che contiene, prendo l’unica carta rimasta appesa leggermente in obliquo. Lucci mi fa sedere su un cuscino posto sul palco e comincia a narrare la storia del Giovane boscaiolo. Eccetto alcuni, scritti da lui stesso, la maggior parte dei racconti proposti dall’attore abruzzese sono riadattamenti di storie zen e fiabe popolari, che hanno in comune la sintesi e l’intento didascalico: anche se non apertamente moraleggianti, tutti sono stati elaborati per suggerire un insegnamento. Quello del Giovane boscaiolo non fa eccezione: Lucci lo narra con grande abilità e spigliatezza, sembra andare a braccio. Il pubblico osserva le sue movenze e le mie espressioni. A differenza di quelle raccontate agli altri spettatori, la fiaba risponde alla mia domanda, anzi, di più, batte esattamente sul nodo che l’ha generata. Torno a posto con le orecchie che mi fischiano per lo sbigottimento e, per un po’, non riesco a seguire il filo dello spettacolo. Poi, forse, capisco. Al netto di ogni combinazione magica e flusso energetico inspiegabile alla mia ragione, percepisco lo spazio di specialità creato da Lucci per il singolo spettatore seduto sul palco. Fin dall’inizio è ben chiara la differenza tra i momenti in cui Lucci intrattiene il pubblico, risponde alle domande o agli impulsi dei numerosi bambini presenti, spiega le condizioni di ingaggio di questa tipologia di teatro partecipato, e, invece, quelli in cui sale sul palco a raccontare: lì sono richiesti religioso silenzio e massima concentrazione, perché a essere narrata non è solo una storia, ma una risposta. Ora, se il pubblico effettivamente obbedisce alla raccomandazione, lo spettatore sul palco è portato ad avvertire che quel momento è dedicato a lui e, se sceglie di entrare in gioco, il suo ingegno si acuisce per avvertire quanti più segni possibile e riportarli alla sua esperienza personale. In definitiva, il dispositivo scenico creato da Lucci funziona come una sorta di acceleratore di percezione, per certi versi non dissimile da quello elaborato da Fogu in Katabasis.

FARòFILò_Foto di Clara Mammana
FARòFILò | Foto di Clara Mammana

Un altro esempio di questa tipologia partecipata di teatro che attraversa il festival è Sephirot. Il Gioco prodotto da CHRONES.srl, una start-up nata nel 2022 con l’obiettivo dichiarato di mettere in discussione i confini tra arte e scienza. Stando anche al suo video di presentazione, Sephirot è un «gioco di ruolo online basato su recitazione, competizione, collaborazione»: alla Luna nel Pozzo Alessandro Anglani, Carla Andolina ed Elisa Armellino ne allestiscono una versione dal vivo, con una plancia formata da «dieci pallini colorati ispirati alla Cabala ebraica», sui quali le due protagoniste devono agire, aumentando o diminuendo i loro punti Lotta, Carisma, Fortuna. La drammaturgia del gioco/spettacolo è basata sul racconto di Fedro La volpe e il corvo: i due animali (impersonati rispettivamente da Armellino e Andolina) si comportano classicamente – la volpe, golosa e astuta, vuole sottrarre il formaggio al corvo che, sciocco e vanitoso, intende mangiarlo – e sono guidate da un Direttore (Anglani), che regola anche gli interventi del pubblico. Quest’ultimo è chiamato in causa per appoggiare e favorire, in determinate circostanze, l’uno o l’altro personaggio e per far prendere alla storia una piega o un’altra.

Durante lo svolgimento dell’azione, mi sento un neofita di fronte a un gioco di ruolo estremamente complicato di cui solo i conduttori conoscono le regole. Lo smarrimento generale mi fa pensare di non essere l’unico ad avere questa sensazione. Sono essenzialmente tre i limiti che impediscono la comprensione di quanto sta avvenendo in scena: non è chiaro lo sviluppo narrativo e i personaggi, per quanto brillantemente interpretati dalle due attrici, appaiono privi di contesto, come se volteggiassero all’interno di un vuoto pneumatico; è sconosciuta l’influenza dei pallini sulle caratteristiche dei protagonisti ed è quindi impossibile comprendere i loro movimenti all’interno dello spazio; non essendo esplicito che cosa il pubblico possa e cosa non possa fare, nessuno sceglie di intervenire e la partecipazione della platea si limita a timide votazioni per decidere se fissare il limite di carta, forbice, sasso tra volpe e corvo a una o tre manche. Non mi è possibile sapere se la versione online originaria di Sephirot riesca a raggiungere l’obiettivo dichiarato di creare una drammaturgia ipertestuale, ma senz’altro si può dire che, in quella dal vivo, la mancanza di regole di ingaggio chiare e note a tutti sia d’ostacolo allo sviluppo di una comunicazione e di un lavoro comune con il pubblico.

Sephirot_Foto di Clara Mammana
Sephirot. Il Gioco | Foto di Clara Mammana

La perplessità della platea, la sua paura di esporsi, di assumere un ruolo e una postura diversa da quella a cui è abituata all’interno dello spazio scenico sono elementi ricorrenti nel teatro partecipato visto alla Luna nel Pozzo. Alla Milonga teatrale di Epiteatro, compagnia guidata da Anna Lisa Cantelmi, Giorgio Degasperi e Caterina Palmucci, addirittura un astante, evidentemente poco a suo agio con la situazione e con gli accenti delle regioni italiane, mi si rivolge ad alta voce: «Questa, come dicono a Roma, è proprio ‘na strunzat’». Sono dieci minuti buoni, infatti, che siamo seduti intorno a un largo rettangolo delimitato da nastro adesivo bianco e guardiamo il nulla accadere in questo rettangolo. Volendo, possiamo osservare gli spettatori che ci sono di fronte, anche loro accomodati vicino ad alcuni tavoli, mentre sorseggiano, come noi, un infuso di erbe servitoci da un membro della compagnia. Anch’essi, dopo le poche parole di benvenuto di Giorgio Degasperi, rimangono in attesa che accada qualcosa mentre nell’aria aleggia una vaga musica di sottofondo. A un tratto, due ragazzi del pubblico entrano nel quadrato e improvvisano una danza: la musica improvvisamente si interrompe, per riprendere solo nel momento in cui il palco torna vuoto. A quel punto, tutti capiamo il meccanismo e iniziamo a giocare con la scena: c’è chi fa una capriola, chi fa passeggiare il cane, chi pone un vaso di fiori al centro del quadrato (la musica riprende una volta rimasto soltanto il vaso), chi gattona, chi salta dentro e fuori il quadrato cercando di ingannare il tecnico al mixer.


Milonga teatrale_Foto di Clara Mammana
Milonga teatrale | Foto di Clara Mammana

Col passare del tempo, cominciano a vedersi azioni più complesse e anche più problematiche: una donna, alzandosi dal tavolo su cui è seduta, si dirige verso il tableaux vivant che si sta formando e getta in modo piuttosto veemente dei fiori in faccia a un’altra persona. Nessuno reagisce, se non la donna colpita, che sussurra sarcastica: «Anche io ti voglio bene». Nonostante le condizioni diversissime, viene in mente quella sospensione dell’etica e del costume quotidiani che si manifestò alla Galleria Marra di Napoli, nel 1974, durante Rhythm 0 di Marina Abramović: «Sul tavolo ci sono 72 oggetti che possono essere usati a piacimento su di me […] Io sono l’oggetto. Durante questo intervallo di tempo mi assumo ogni responsabilità. Durata: 6 ore». Nella Milonga teatrale nessuno si prende la responsabilità per le azioni altrui, nessuno nemmeno suggerisce di agire secondo regole diverse da quelle consuete, ma il recinto estetico all’interno del quale avviene questo erede degli happening di Allan Kaprow ci sollecita ad abbassare la guardia e a lasciar passare gli impulsi solitamente tenuti sotto controllo (tra i quali, evidentemente, l’aggressività ingiustificata). Viene da domandarsi se questa manifestazione di pulsioni irrazionali, o comunque non ordinarie, voglia e possa sfociare in una loro decostruzione, in una catarsi, o se essa preveda nient’altro che se stessa, soltanto il gesto liberato per un paio d’ore dalle sovrastrutture dell’io. Si arriva, così, a interrogarsi sulla natura del teatro e sulla condizione dello spettatore. Nel teatro cosiddetto tradizionale, lo spettatore osserva qualcuno recitare una parte: può riconoscere qualcosa di sé in quello che vede e, in questo modo, avviare un processo riflessivo o emotivo. La sua passività è soltanto apparente: ha sensi, mente e animo proiettati verso l’elaborazione, la catarsi, di ciò che ha sentito risuonare in lui. Nella Milonga teatrale, invece, lo spettatore è chiamato ad alzarsi dalla poltrona e agire. Non c’è una finzione a cui aderire per chi si trova nello spazio scenico, non c’è un livello di rappresentazione, non ci sono situazioni create per essere rielaborate: c’è l’intervento. E, tuttavia, da questo riescono comunque a scaturire la rielaborazione e la riflessione, che non passano attraverso figure in movimento su un palcoscenico, ma nella tensione che aleggia nello spazio delimitato dal nastro adesivo: osservarlo, anche se nulla vi accade, è sufficiente all’emozione e al pensiero.


Milonga teatrale_Foto di Clara Mammana
Milonga teatrale | Foto di Clara Mammana

Dove nascono i temporali della compagnia parmense Anello Debole è, degli spettacoli visti in questo festival, quello che più solletica l’esigenza immaginativa dello spettatore. La scena in cui veniamo accolti vede un uomo steso sul fianco dormire profondamente (Filippo Arganini), mentre da una cassa bluetooth si affastellano voci di speaker televisivi, slogan pubblicitari, jingle, spezzoni di film e, sullo sfondo, quella che sembra essere una strega dei sogni (Laura Casali) incombe con dita adunche e un ghigno terrorizzante. Mentre Davide Giangaspare suona una quantità sterminata di strumenti, da sotto la gonna di Casali entrano in scena cinque personaggi vestiti di nero, cinque demoni forse (Eya Baccouche, Giada Michelle Mbock, Sata Fofana, Drusilla Yamoah, Awa Ndiaye Mame), che raccontano storie legate a Quetzalcóatl, il dio serpente piumato, e ad altre divinità azteche. Non riesco a capire come queste storie dai nomi complicati si leghino a quanto sto vedendo e perdo il filo, ma rimango affascinato dalla potenza sprigionata dai corpi delle cinque performer, che si aggirano tra il pubblico con fare feroce e spavaldo. Ognuna di loro prende con sé un gruppo di persone e lo conduce in un punto diverso del parco. Una volta lì, fa leggere agli astanti una storia tratta da Favole dei quattro continenti, un libro che raccoglie le storie popolari raccolte dai missionari saveriani nei loro viaggi, ripubblicato da EMI editore in collaborazione con il Museo d’Arte Cinese ed Etnografico di Parma, lo stesso ente che ha commissionato lo spettacolo alla compagnia. Siamo invitati a raccontare a nostra volta una storia a testa, a partire da «quella volta che ho cambiato…»: il taglio di capelli, la mia vita, il cinema del paese in cui sono nato… Per alcuni minuti prende forma un gruppo che condivide racconti, anche se spesso brevi e un po’ stentati, ed è connesso con le altre comunità sparse per lo spazio. Nel parco, Arganini continua a dormire. Assistiamo al suo risveglio dopo essere stati disposti su due lunghe file, una di fronte all’altra. Di nuovo, l’impatto coreografico sovrasta quello narrativo: anche a causa dell’eccessiva distanza dall’azione, non riesco a comprendere la misteriosa leggenda evocata dalle interpreti. Tuttavia, forse proprio per questo, i loro movimenti mi risultano affascinanti, carichi di un significato lontano ed evidente allo stesso tempo, fondativo per gran parte della nostra mitologia: un’anima, dopo un lungo ottundimento, riesce a divincolarsi dal sonno e sente il bisogno di raccontare. Ci riuniamo tutti nell’anfiteatro della Luna nel Pozzo: Arganini è seduto di fronte a noi, ci guarda e ci chiede di concludere questo spettacolo con le nostre storie. Siamo generalmente perplessi, un mormorio si sparge in platea. Poi qualcuno intona Blowin In the Wind, alcuni altri lo seguono e l’imbarazzo si scioglie. Vediamo ripresentarsi, tuttavia, il problema emerso in Sephirot: senza regole di ingaggio chiare e condivise, è molto difficile per il pubblico dare un contributo diverso da quello tradizionale, anche in uno spettacolo di per sé coinvolgente.


Dove nascono i temporali_Foto di Clara Mammana
Dove nascono i temporali | Foto di Clara Mammana

Di fronte agli spettacoli di teatro ragazzi e di clownerie proposti all’interno dell’anfiteatro, mi attraversa uno stupore piccolo, non di bassa intensità, non infantile, ma fanciullesco, legato alla matericità, alla perizia e alla cura artigianale di chi è di scena. Sono deliziato dalla grazia con cui Danila Barone, in Escargot del Teatro del Piccione, disfa l’ingombrante bagaglio che si porta sulle spalle per srotolarlo interamente, evocando con voce sottile e movimenti morbidi una storia per ogni oggetto raccolto nelle sue pieghe. Nonostante il ritmo della narrazione si conceda alcuni rallentamenti, mi appassiono alla storia della Piccola strega messa in scena da Pia Wachter, grazie anche a una regia e a un disegno luci che, nella loro semplicità, riescono a vivificare diversi aspetti del racconto, accordandosi con le variazioni di tono di Wachter – su tutti, per il contrasto tra la povertà di mezzi e la maestosità del risultato, è la trasformazione di Wachter in Strega Suprema a impressionarmi di più.


La piccola strega_Foto di Clara Mammana
La piccola strega | Foto di Clara Mammana


Ali è lo spettacolo senza parole di Sara Gagliarducci che racconta di una senzatetto, Mimì, in trepida attesa dell’uomo che l’ha abbandonata. L’uso distorto, disgustoso o fuorviante della spazzatura sparpagliata intorno a lei genera nel pubblico un genuino divertimento bassoventrale, ma quello che più diverte e coinvolge sono i momenti di interazione, in cui alcuni spettatori e spettatrici divengono servi di scena di Mimì – è esilarante la tortuosa scena della doccia, anche a causa delle involontarie incomprensioni tra la clown e i suoi maldestri assistenti. Vedo realizzarsi quello di cui McNeer parla quando mi dice: «Fare clownerie è andare in scena senza sapere cosa farai, né chi sei, per scoprirlo insieme al pubblico, improvvisando. Il clown è colui che sta tranquillo sospeso sopra l’abisso del non sapere».


Escargot_Foto di Clara Mammana
Escargot | Foto di Clara Mammana

Apparentemente, lo spettacolo presentato da McNeer, Ti ho visto, non coincide pienamente con queste parole. La storia, tratta dalle Cosmicomiche di Italo Calvino, di un uomo che si accorge di essere osservato dagli abitanti di un altro pianeta e tenta disperatamente di mostrarsi nella sua immagine migliore, oltre a essere un’efficace rappresentazione della dispersione implicita in qualsiasi tentativo di comunicazione, è drammaturgicamente molto solida e accompagnata da un complesso impianto scenico. L’angusta cabina in cui è rinchiuso il protagonista è zeppa di interruttori, faretti, lampadine, casse per la musica, fili elettrici che McNeer manovra per l’intera durata dello spettacolo. Un imprevisto scombina questa struttura già nelle primissime battute. Si spengono le luci in platea, parte una musica molto forte e si sente McNeer, ancora al buio nel centro della scena, gridare al fonico: «Massimiliano! Volume! Mayday, Massimiliano! Volume!». La situazione viene poi risolta in consolle e lo spettacolo può proseguire.

Dice McNeer a proposito di questo incidente: «Ti ho visto è uno spettacolo fortemente strutturato, ma è anche una gabbia per l’attore: è talmente complicato e primitivo a livello tecnico, che lascia passare l’improvvisazione dalla porta di dietro. Per alzare e abbassare il volume a mio piacimento, ho sistemato uno spago che passa attraverso il muro e va fino alla manopola dell’amplificatore, ma se il nastro adesivo che lo tiene si stacca, come è successo l’altra sera, perdo completamente il controllo. Io so che si farà fiasco, so che ci saranno problemi tecnici, ma non so quando, come o dove, e questo mi costringe a improvvisare dentro una struttura molto minuziosa».

L’uscire fuori dal conosciuto, dal previsto, dal sé sembrano essere le prerogative del clown secondo McNeer, che parla diffusamente anche dei suoi laboratori con le persone con disabilità cognitiva: «Se io lavoro con un cosiddetto “normopatico” devo smontare tutta una struttura cognitiva di idee, giudizi, auto-giudizi, aspettative, tutta roba che loro tendenzialmente non hanno: sono già qui e solo qui, non stanno prima o dopo. Non stanno giudicando. Hanno la generosità del bambino nello stare sul palco e nel guardare gli altri, senza competizione. Quando faccio un laboratorio clown cerco di invitare almeno una persona con una qualche disabilità cognitiva, così devo spiegare molto di meno, perché l’esempio sta davanti a me, incarnato da una persona che vuole soprattutto divertirsi, trovare amicizia, stare assieme agli altri. Nella clownerie parliamo di “sguardo incondizionatamente positivo”: io ti guardo e adoro quello che stai facendo, senza volontà di correzione o cambiamenti. Loro portano questo sempre».


Ti ho visto_Foto di Clara Mammana
Ti ho visto | Foto di Clara Mammana

Ogni serata della Luna nel pozzo prevede anche un rito di chiusura, affidato a uno degli artisti in residenza. Gisela Fantacuzzi propone un estratto da El tiempo està en silencio, in cui la sua figura si muove flebile davanti al trullo diroccato della masseria, con i lacerti di un video a scorrerle alle spalle. A causa dei detriti della costruzione su cui sono proiettate, le immagini risultano illeggibili: sembrano far parte di un faticoso processo memoriale, in cui il corpo della danzatrice fluttua, si definisce pian piano, per poi uscire di scena, lasciando dietro di sé soltanto una lampada elettrica pendere, accesa, nell’oscurità.


El tiempo està en silencio_Foto di Clara Mammana
El tiempo està en silencio | Foto di Clara Mammana

Hui Tsyr interpreta una poesia di Karin Boye, Ja visst gör det ont [Certo che fa male] sulla necessità del dolore, sull’inevitabilità della caduta e sulla gioia che ne consegue, nel raggiungimento della pienezza nella costruzione del mondo. L’artista taiwanese esprime una violenza antica, tellurica, nascosta da un volto e da una postura inizialmente placidi, che si sforzano, si deformano e, infine, riposano. La crescita attraverso la lotta è un principio basilare anche dell’intervento di Marco Vergallo, che, poco prima di Tsyr, inscena una breve presentazione del Kung Fu, arte marziale di cui è istruttore.


Ja visst gör det ont_Foto di Clara Mammana
Ja visst gör det ont | Foto di Clara Mammana

Rossana Farinati rielabora l’esperienza del parto in un’incalzante parlata veneta e la fonde con la teogonia greca, riallacciando l’uno con l’universale, l’individuo con la terra. È una tensione, questa, che attraversa anche la danza che la norvegese Sigrid Norheim Ørntoft ci insegna al termine dell’ultima sera: un passo a sinistra, due a destra, e la comunità della Luna nel Pozzo gira al centro dell’anfiteatro tenendosi per mano e cantando un’antica canzone norrena. Cantiamo con gioia e rigore la fine del nostro percorso insieme, ma esaltiamo anche la connessione con il circostante, con l’energia di quello che si vede e dell’invisibile. Mi viene in mente che qui sono sepolte le ceneri dei genitori di McNeer e che il tronco di un albero è composto principalmente da cellule estinte – è McNeer stesso ad avermelo ricordato. Attraverso il rito di comunione con chi e con cosa è venuto prima di noi, stiamo realizzando il significato primordiale, etimologico, della sagra (sacrum). Questa, pressappoco, è la traduzione delle parole che pronunciamo:

Oh tu vecchia Oh tu vecchia Oh tu buona, vecchia, Madre Terra

Dove sei stata? Dove sei stata? Dove sei stata in questa lunga notte?

Qui, proprio qui, proprio qui. Qui, proprio qui, proprio qui.


Danza finale_Foto di Alberto Catera
Danza finale | Foto di Alberto Catera

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