«Ascoltando infatti le grida di esultanza che si levavano dalla città, Rieux si ricordava che quell’esultanza era sempre minacciata. Poiché sapeva quel che la folla in festa ignorava, e che si può leggere nei libri, cioè che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decenni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere da letto, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle carte, e che forse sarebbe venuto il giorno in cui, per disgrazia e monito agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi e li avrebbe mandati a morire in una città felice.»
Albert Camus, La peste
Quando Camus, nel 1947, pubblicò il suo noto romanzo, la peste stava per essere aggiunta all’ordine delle malattie debellate. A quel tempo, tuttavia, erano altre le ferite non rimarginate: l’Europa era martoriata, debole, ma in lenta ripresa, tremendamente confusa ma, forse, come la Orano di cui l’autore francese racconta, un poco più felice. Immagino Camus su una terrazza superstite: osserva la gente prendere il pane, giocare a carte o bere un bicchiere con un amico ritrovato. Camus non vorrebbe interrompere le piccole forme d’estasi di un mondo che ha appena riscoperto la pace, ma la sua mente – come quella di tanti pensatori del Novecento – non può estirpare la pietrificante, lungimirante consapevolezza: il male riposa soltanto e, presto o tardi, si ridesterà.
Con La peste, Camus affronta contemporaneamente il “caso” storico e quello esistenziale: il primo fa riferimento alla catastrofica situazione del secondo conflitto mondiale, a come l’odio si sia trasferito da persona a persona nel giro di un decennio; il secondo , invece, guarda a un precedente e altrettanto illustre “narratore” che, in merito a un’altra devastante pestilenza, scriveva: «aveva come spezzato i freni morali degli uomini che, preda di un destino ignoto, non si attenevano più alle leggi divine e alle norme di pietà umana» (Tucidide, II Libro della Guerra del Peloponneso, 430 a.C.).A Orano come ad Atene, non è tanto la malattia in sé, bensì l’uomo a essere posto sotto la lente, con i propri atteggiamenti di compassione o di prevaricazione, i suoi timori o le sue ultime ricerche di piacere.
Da quasi vent’anni, il Teatro del Cerchio di Parma porta in scena una propria trasposizione de La peste, liberamente ispirata al capolavoro di Camus e che, come quest’ultimo, si prefigge di indagare i vari anfratti dell’animo umano colpito da un primordio di simbolica epidemia. Lo spettacolo incomincia mentre ci si trova ancora nel foyer, in attesa del proprio turno, senza che ce ne si renda conto, in quella sospensione, nel vedere gli altri che, uno alla volta, entrano in sala, mentre i restanti aspettano in balia del loro «destino ignoto», come recita Tucidide. Alcuni fremono, sono impazienti, altri magari vorrebbero tirarsi indietro, ma inevitabilmente un tintinnio lontano dà il segnale. «Può entrare», dice Mario Mascitelli (direttore artistico e regista de La peste) che ha il compito di gestire le tempistiche ferree che reggono la pièce.
Il primo ad accogliere il nostro senso di spaesamento è il contatore di ceci, seduto al buio, illuminato dalla fioca luce di una lampada. «È arrivata…» dice e, mentre si è soli con lui, si sentono voci, indistinte, e grida, talvolta sussurri: il contatore introduce al mondo che ci attende. Sarà un viaggio all’inferno, ma senza alcun Virgilio. Un altro trillo e si deve proseguire.
Si scosta una tenda e, in un’altra stanza, incontriamo il portinaio di un palazzo che invita a sedersi con lui: dapprima si dimostra affabile e cordiale, ma la sua gentilezza si trasforma presto in agitazione, esattamente nel momento in cui comincia a parlare della quantità di topi che alberga nelle cantine e che non fa presagire nulla di buono. Trillo. Proseguire.
La figura del/la fidanzato/a occupa la terza stanza. Saluta l’amato/a – lo spettatore- che ha deciso di partire, di lasciare una città che si sta riempiendo di topi e di persone che respirano male. Stringe le sue mani, ma arriva il fatidico trillo.
Eccolo, il dottore: è preoccupato per l’insorgere feroce della malattia che, ormai, non lascia dubbi sulla propria identità. Si tratta di peste e bisogna in tutti i modi attuare misure di contenimento per scongiurare un’epidemia. Trillo.
Una madre, preoccupata forse più del dottore perché ha toccato un infetto e sa cosa succede a chi si contagia. Trillo.
Un bordello, meta di chi non è ancora stato intaccato dalla paura o di chi ne ha troppa e vuole godersi l’ultimo attimo di piacere.
Trillo.
Un prete interroga sui peccati appena commessi. «Questa peste non è un castigo, ma una benedizione». La peste depura, sciacqua via i peccati e la vita, senza distinzioni. L’ennesimo campanello suona.
Una donna vestita di nero prega dietro a tanti ceri accesi. Prega usando lo spettatore come effigie sacra, una madonna, un santo, una croce. Piange perché ha contagiato sua madre. Trillo.
Ci viene incontro un’altra donna, con le vesti bianche, ma sporche. «Ho provato, ma non ci riesco…». Piange. «Ma se tu mi guardassi, se ci fosse qualcuno che mi guarda, forse riuscirei…» indica una corda. Un’altra figura ci agguanta, sbucando nel buio, e ci intima di guardare la donna salire sullo sgabello, infilarsi il cappio al collo… Trillo.Ormai è il mondo dei morti. Fantasmi, cadaveri, li si immagina o sono tangibili? Trillo e trillo. L’ultima è una ragazza, incinta. Tende la mano, lei non può più scappare, ma forse chi ha assistito a tutto ciò può ancora salvarsi. «Esci salvati scappa!».
Silenzio.
Tornare alla normalità, dopo uno spettacolo di questo tipo, pare non essere così naturale. È forte, anzi fortissimo l’impatto che – in modo particolare le ultime stanze- hanno sulla psiche degli spettatori più sensibili -e non solo. Le varianti e gli “imprevisti” de La peste sono così numerosi da non poter considerare l’emotività l’unico metro di giudizio. Prima fra tutte, vi è la solitudine in cui piomba lo spettatore che genera, a sua volta, un senso di inidoneità: non è affatto raro – a detta degli stessi interpreti- che alcuni spettatori e alcune spettatrici interagiscano, che non si limitino ad ascoltare e a seguire il flusso continuo dei personaggi; altri rimangono in silenzio – forse anche come strategia di “sopravvivenza”. È una scelta dettata dall’indole di ciascuno ma che, appunto, può suscitare dubbi rispetto alla riuscita della performance. La drammaturgia, in questi termini, consente entrambe le opzioni, dal momento che può accogliere, in egual misura, brevi interventi e silenzi, in un gioco macabro dove lo spettatore è una pedina che deve dar prova della propria tenacia, anche di fronte alle grida di disperazione, alle suppliche, agli ammonimenti e alla confusione generata da voci e suoni indistinti che si sovrappongono. Un gioco tragicamente splendido, in cui chi osserva e ascolta è anche colui che partecipa direttamente, prendendo la parola, anche solo per un istante, o restando in silenzio, ma movimentando le emozioni più disparate. Che pianga, rida o ammutolisca, nessuno vince e nessuno perde. Ciascuno, invece, è invitato a salvarsi, dopo aver abbracciato la propria fragilità: la peste termina quando si comprende di non avere più il timore di vivere.
Elementi di pregio: l’intrigante scelta di rivolgersi a un solo spettatore per volta.
Limiti: l’intricato e complesso allestimento è spesso fonte di altrettanti difficoltosi “spostamenti” (infatti, tutte e tre le repliche hanno avuto luogo a Parma). Spesso non si trovano spazi - teatri e non solo - adatti a uno spettacolo che, invece, dovrebbe viaggiare molto di più.
La peste visto presso Teatro del Cerchio (Parma) il 15 dicembre 2023
di Mario Mascitelli
con Gabriella Carrozza, Mario Aroldi, Chiara Casoli, Martina Manzini, Silvia Santospirito, Anna Lisa Cornelli, Loredana Scianna, Silvia Nisci, Pier Federici, Alfredo Biondolillo, Giorgio Cossu, Alessandro Glorioso, Giampiero Aceto, Davide Pellecchia, Anna Ventriglia