Walter Benjamin racconta che un giorno indefinito intorno a metà Ottocento il dottor Jean Nicholas Demarquay disse al suo grande amico Alexandre Dumas figlio: “negli ultimi cinquant’anni tutti i nostri pazienti moribondi sono morti con uno dei racconti di tuo padre sotto il loro cuscino”. Se Alexandre Dumas padre, l’autore dei Tre moschettieri e del Conte di Montecristo è tra gli scrittori più letti e tradotti di tutta la storia della letteratura francese, la memoria del figlio resta ancora oggi legata soprattutto alla Dame aux camélias, romanzo nel 1848, divenuto dramma teatrale quattro anni dopo. Siamo nel post-romanticismo francese, ovvero un momento in cui gli autori transalpini contestavano ai romantici che li avevano di poco preceduti di aver – diciamolo così, grossolanamente – esagerato nei modi e nei toni e di essersi allontanati dalla realtà. Dunque, era necessario tornare al cosiddetto “buon senso” e alla semplicità, nei dialoghi, nelle trame, nei personaggi. Qui Dumas figlio, e figlio di cotanto padre, trova il contesto per inaugurare una stagione del naturalismo (o meglio una falsa partenza, dato che hanno poi avuto la meglio le contestazioni mossegli da Zola, che non apprezza l’autore della Dame aux camélias, almeno come drammaturgo) con una pièce che avrà il merito di riscuotere un successo strepitoso in tutta la buona borghesia teatrale europea, in combinazione con la grande stagione del “Grande Attore” e della “Grande Attrice”. La stessa Eleonora Duse iniziò il proprio personale appuntamento con la leggenda grazie alla sua interpretazione di Marguerite Gautier.
Il profumo intenso di legno della rinnovata Sala Aldo Trionfo del Teatro della Tosse mi riporta all’oggi, davanti a questo “ultramoderno”– così definito sul sito ufficiale del teatro – adattamento, frutto della coproduzione, oltre che della Fondazione Luzzati (Tosse), anche di Elsinor, TPE e Arca Azzurra. Innanzitutto, non c’è alcun preciso bisogno di cornici storico-letterarie da tenere a mente, per accedere a questo lavoro: un narratore, il primo attore a entrare in scena (Gabriele Benedetti), provvederà a fornirci l’essenziale di cui abbiamo bisogno, afferrando stancamente una sedia e sedendovisi, nello spazio minimalista, che si presenta come un magazzino semivuoto in cui rimane ben poco. Di fatto, in tale atmosfera di sottrazione, al narratore preme più che altro darci un titolo. La signora delle camelie, “ancora”, dice insistendo sull’avverbio: ci torneremo. Per ora, basti dire che da qui prendono vita i personaggi e si rivela alla vista del pubblico un palchetto di un teatro ottocentesco, una scena nella scena (a cura di Federico Biancalani e Nadia Baldi): è il luogo dove il giovanissimo Armand/Alberto Marcello vede la bella etera del demi-monde, Marguerite/Anna Manella, per la prima volta e forse proprio per questo sarà, per tutto lo spettacolo, lo spazio marcante della vicenda, come fosse una permanenza ostinata del momento preciso dove entrambi i ragazzi si perderanno per sempre. O una fotografia antica, in cui si agitano i fantasmi. Certo, è uno spazio che non lascia adito a interpretazioni, è proprio un palchetto, fedelmente riprodotto, perfettamente riconoscibile, ma trasformato continuamente, nel corso della vicenda, ora in camera da letto dell’abitazione di Marguerite, ora nella casa di campagna di Bougival, ora, di nuovo, in teatro (quasi un non-luogo in cui confluiscono tutti i ritrovi dei ricchi parigini di metà Ottocento, dove lo spettacolo che si va a vedere non è mai importante come le persone che si conoscono e si salutano in platea o sui palchetti).
A metà tra una scenografia e un oggetto scenico, insomma, il palchetto si presta anche a fungere da figura retorica metonimica: una parte per il tutto, un palchetto per il teatro intero. Peraltro, come si evince dai dialoghi, il posto scelto da Marguerite è idealmente il primo all’altezza del proscenio, dunque anche nell’estremo limitare tra la realtà e la finzione, un confine che si presta anch’esso a un complesso gioco tra allusione e metonimia, diventando, come vedremo, l’indirizzo poetico dell’intero progetto di Ortoleva.
Ma procediamo intanto col dire, ancora, che questo palchetto, è soprattutto un luogo del “dentro”, laddove si consumano le frivolezze e gli scambi più intimi, l’amore e la malattia, il sesso e la morte. Fuori, ovvero in tutto il vuoto e spettrale spazio che circoscrive l’illuminatissima micro-scena rosso-porpora (disegno di Alice Mollica), avvengono le fughe, gli smarrimenti, i soliloqui deliranti, gli inseguimenti, anche, se vogliamo, le dispersioni metanarrative, costituite dall’attore Benedetti sempre più accalorato nel fornire dettagli e inserti di contesto, entrando sempre di più “dentro” la vicenda, prima figuratamente, alzandosi dalla sua sedia e incalzando la follia amorosa di Armand, come in una radiocronaca mozzafiato, poi, fisicamente, irrompendo nella vicenda stessa, assumendo il ruolo del padre di Armand e facendo così il suo ingresso nel “dentro” del palchetto. Qui avrà luogo l’unico e decisivo dialogo tra lui e Marguerite, quello in cui la convincerà, con tutto il peso borghese della razionalità, a interrompere la sua sconveniente relazione con il figlio, e sparire nel nulla, spingendola inevitabilmente di nuovo alla prostituzione per l’alta società.
Così come il palchetto è una permanenza naturalista, un reperto archeologico, insomma, di un immaginario allestimento pomposo basato sulla verisimiglianza, anche la recitazione degli attori risulta coerentemente spinta da identica esigenza artistica. I quattro attori –oltre ai detti Armand e Marguerite, ci sono anche Gaston/Vito Vicino e Prudenza/Nika Perrone – tutti microfonati come anche Benedetti (non saprei intuirne il motivo artistico, le voci sono solide, gli attori eccellenti, forse ha a che fare con il tipo di attenzione che si richiede al pubblico?), reciteranno i loro ruoli con generosità, senza scambiarseli mai, stuzzicandosi, dolendosi, struggendosi e amandosi quando lo richiede la partitura, in costumi (ideati da Daniela De Blasio e realizzati con Rocio Orihuela Perea e Viviana Bartolini) che risultano assai efficaci, nel loro risultare credibilmente cristallizzati, se non in modo filologico, quantomeno nell’immaginario teatrale ottocentesco che lo supporta, almeno rispetto alla sensibilità media odierna. Armand e Marguerite, in particolare, si concentrano sul loro percorso di personaggi, un arco credibile che va fino in fondo, fino allo stremo delle forze di entrambi, Gaston e Prudenza, invece, ben presto lasciano il loro ruolo “verosimigliante” di supporto all’incontro tra le due anime destinate ad amarsi, in direzione di una sostanziale sovrapposizione, a mio avviso del tutto convincente, perché giocata tecnicamente, ovvero in termini vocali, con i loro diversi timbri che si intrecciano. I due attori – lo sguardo, unico, fisso, è diretto verso Armand, ma abbraccia sinistramente la platea intera – orchestrano diabolicamente la loro inquietante partecipazione a questa storia di amore e morte, addirittura parlando in sincrono, secondo una partitura musicale incalzante, però, che conserva, mozartianamente, una insospettabile luce di leggerezza anche nelle tinte più fosche. Anche del naturalismo, in termini di arte del recitare, qui ci sono mostrate le spoglie: resta il rispetto essenziale per le traiettorie misteriose e tossiche di un amore, ed è per questo che di ogni altra impalcatura si può fare a meno, tranne che della fedeltà al sentimento dei due giovani, nel rapporto squilibrato vittima-carnefice che si inverte e si rovescia continuamente, fino alla tragica fine.
Qual è l’effetto di questa distinzione netta tra due spazi, tra due tecniche di recitazione, tra due modalità narrative (la narrazione “fuori campo” – in realtà sempre in campo e l’azione effettiva incarnata negli attori)? Il risultato principale mi sembra produrre un’immagine simile a quella di un ripiegamento.
Il teatro si ripiega su se stesso, al suo interno (il palchetto nel teatro invisibile, la storia degli amanti nelle omissioni del tempo e del contesto, la corporeità del narratore nella sua reale partecipazione alla vicenda) e, piega dopo piega, lo spettatore, sempre più conscio della finzione, dell’ostentazione, della insostenibilità della rappresentazione messa fino ai suoi limiti, arriva fin dentro al cuore della ragione stessa dell’esistenza dell’opera di Ortoleva. Ovvero, l’elemento autobiografico che mosse Dumas figlio a trasformare la propria tragica vicenda amorosa giovanile, realmente vissuta, in uno degli spettacoli che più avrà successo e otterrà repliche per decine e decine d’anni.
Ed ecco, allora la ragione di quell’ancora, reiterato, trascinato dalla voce di Gabriele Benedetti, all’inizio: “La signora delle camelie ancora? Ancora, ancora”. Una voce che riflette quel modo così unico che questo attore ha di agire in scena: quando fa sorridere e parla con calma, lascia trapelare un’ironia così tagliente da far presentire una perdita di ogni controllo, una furia. E viceversa, quando, nel corso della vicenda, la sua voce sarà sferzante o brutale, ecco inevitabilmente sentirci anche la dolcezza malinconica di chi non sarebbe mai voluto arrivare a tanto, una rabbia suo malgrado. Un attore che lavora così, su una linea sempre pericolosamente instabile, non può che diventare il vero e proprio simbolo di questo adattamento della Signora delle camelie, l’ago della bilancia della riuscita o meno di qualcosa che quanto più spinge sul motore interno dei personaggi, sulla lettura drammaturgica profonda di ciò che accade, sulla concretezza dei corpi dei performer, tanto più impedisce ogni immedesimazione, ostentando sempre e comunque una rappresentazione, a favore di pubblico, insomma. Entrambe le strade sono percorse fino in fondo, ovvero ai due innamorati (bravissimi, diversissimi: Anna Manella, che ha talmente tanta libertà di attrice da mantenersi complessa al di sopra di ogni semplificazione e Alberto Marcello, più obbediente alla vicenda, pronto ad accettarne i rovesciamenti, generoso e cieco) succede davvero qualcosa, si parlano realmente, stanno uno nella reazione dell’altra, esistono insomma, eppure lo spettatore ha sempre ostinatamente davanti a sé la grande finzione, l’ostacolo a ogni possibile estasi di assorbimento. Sono loro i fantasmi vivi che ci sorprendono mentre guardiamo quella che indiscutibilmente è solo una vecchia fotografia.
E allora cosa c’è che per alcuni può funzionare e per altri no, in questo spettacolo di Ortoleva? Una linea, una fragilissima linea. Da un lato c’è il dentro del teatro: un dentro del dentro del dentro del dentro, e via senza vederne il fondo – che infatti anche a livello spaziale è ostacolato dalle dette luci controscena verso il pubblico, coloratissime, probabilmente per “dare l’atmosfera”. E dall’altra parte, il fuori, ma un fuori generico, inconoscibile, vago, nebuloso, quello del pubblico, lasciato davvero in modo orizzontale al nostro spazio emotivo – ed è rispetto a questo punto, che possiamo dire che il presente adattamento suona lontanissimo da Dumas figlio: qui non c’è voglia di educare, né tantomeno di insegnare o fare prediche.
Certo, si dirà, c’è la questione della violenza sulle donne, che non sfugge affatto, anzi. È vero, sono reiterati gli interventi, disseminati qua e là, per concentrare l’attenzione sulla questione dell’isolamento, della violenza nei confronti del femminile, ma questo fa parte della lettura drammaturgica: è, cioè, la riflessione che nasce da un contatto vivo e ineludibile tra un’opera di più di centocinquanta anni fa e artisti e pubblico del 2024. Il tema del femminicidio non viene affrontato, emerge spontaneamente, non è il motore dell’adattamento, ma il suo riferimento inevitabile.
Ma non è questo il punto, o quantomeno non lo è unicamente, almeno secondo me.
Credo, invece, che la regia costruisca su questo impianto un’energia differente, che è davvero ciò che resta, che turba e che agisce, quando lo spettacolo finisce, un’energia di cui è impregnato l’attore Benedetti, nello stile, nella tecnica, ovvero nella luce e nell’ombra: c’è, insomma, una rabbia repressa, in tutto il lavoro, una ferocia sconvolgente, violenta, che emerge qua e là, sotto forma di ironia, di umorismo. Ed esplode alla fine, sì, ma, ancora una volta, in forma inattesa.
Marguerite muore, per colpa dell’odio feroce di Armand – per ora non ci soffermiamo sui dati specifici della trama – e, con le residue (infernali, spiritate, esauste) energie, ma sempre all’interno del suo palchetto, ormai davvero un metafisico limitare tra la vita e la morte, l’attrice scaglia le sue maledizioni contro il corpo dell’attore che ha interpretato finora Armand, ormai riverso nella penombra del proscenio, quindi nel “fuori”, ma chiamandolo sorprendentemente Alexandre, ovvero Dumas figlio. La luce cambia, i riflettori teatrali tacciono, si accendono i neon della sala, quelli che ci riporterebbero al nostro quotidiano, al nostro fuori. I due attori che interpretano Gaston e Prudenza escono di scena e restano Marguerite sul palchetto, Armand, ormai una sagoma, di spalle al pubblico, il padre di Duval/Dumas sulla sua sediolina da narratore, di profilo. Ed ecco l’ultima piega dello spettacolo, l’ultimo “dentro”, il fondo da cui non si torna più indietro: l’inferno di Marguerite diventa quello dell’attrice ovvero di tutte le attrici/Marguerite che continuano a morire, gloriosamente, eroicamente, dolorosamente, e lanciano la loro ultima lettera al pubblico prima di lasciarsi cadere, e rialzarsi tutte le volte al successivo applauso, e poi ricominciare, farsi applaudire, amare, soffrire, subire violenza, morire, farsi applaudire. Ed è per questo che credo che il femminicidio non sia l’obiettivo unico dell’urgenza di questo adattamento. Intuisco, piuttosto, il sollevamento di un grande problema etico, insito nell’arte e specificamente nel teatro: la sofferenza che produco può nutrire l’arte che creo? Ho il permesso di utilizzare i corpi di chi ho amato e distrutto per fare di loro un teatro?
Il fondo del teatro è sordo, c’è una parete spessa che non restituisce alcun suono, né immagine, né risposta. Questo ripetersi ciclico, questo “ancora” altro non è se non il teatro stesso, che ci richiama a raccolta (allora i fantasmi siamo noi) tutte le volte, davanti alla vita imbalsamata della scena, all’ennesimo emozionarsi e morire. La sfida più grande per Ortoleva e il suo gruppo di lavoro è proseguire su questa linea autoriale coraggiosa, ambiziosa, non perché porti in un posto preciso – che ancora non si conosce – ma, al contrario, proprio perché la sua linea è espressione di uno stare in bilico, tra conosciute e sconosciute forme, tra presenti e future possibilità. La qualità principale che questo regista porta, almeno nel lavoro che ho visto, che è anche l’unico a cui posso fare riferimento, sta, forse, nella condizione di percorrere un feroce e per nulla rassicurante squilibrio. Accettare il rischio vuol dire già non cadere mai.
La signora delle camelie visto al Teatro della Tosse sabato 30 novembre 2024
liberamente tratto dal romanzo di Alexandre Dumas figlio
drammaturgia e regia Giovanni Ortoleva
dramaturg Federico Bellini
scene Federico Biancalani
costumi Daniela De Blasio
musiche Pietro Guarracino
movimenti Anna Manella
disegno luci Davide Bellavia
assistente alla regia Marco Santi
con Gabriele Benedetti, Anna Manella, Alberto Marcello, Nika Perrone e Vito Vicino
realizzazione scene Federico Biancalani e Nadia Baldi
realizzazione costumi Daniela De Blasio, Rocio Orihuela Perea, Viviana Bartolini
in tourné e luci Alice Mollicafonico Emanuele Morena
produzione Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse, Elsinor – Centro di Produzione Teatrale, TPE – Teatro Piemonte Europa, Arca Azzurra Associazione Culturale
Spettacolo selezionato da Next – Laboratorio delle Idee per la produzione e programmazione dello spettacolo lombardo.
distribuzione Gianluca Balestra / Elsinor
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