Il termine “buco nero” fu probabilmente coniato per la prima volta alla fine degli anni ‘60 dal fisico statunitense John Archibald Wheeler, si dice ispirato dallo spettatore di una sua conferenza stufo di sentirgli ripetere la definizione di «oggetti completamente collassati dal punto di vista gravitazionale». In realtà, il concetto venne formulato ben prima, quando Wheeler non aveva ancora compiuto cinque anni, e si deve al matematico e astrofisico tedesco Karl Schwarzschild. Il giovane scienziato, nel 1915, mentre era impegnato sul fronte orientale, studiò e risolse le equazioni su cui si basava la teoria della relatività generale, elaborata appena un mese prima da Albert Einstein, secondo la quale la forza di gravità, dipendente dalla massa di un oggetto, è capace di deformare lo spazio e il tempo, curvando anche la traiettoria della luce. I risultati a cui giunse Schwarzschild, cercando di applicarla, funzionavano se si considerava una stella di dimensioni comuni. Per citare Benjamín Labatut, che narra questa storia in Quando abbiamo smesso di capire il mondo (2021):
«Il problema sorgeva quando una massa troppo grande si concentrava in un’area piccola, come accade quando una stella gigante esaurisce il suo combustibile e comincia a collassare su se stessa. Secondo i calcoli di Schwarzschild, in questo caso, lo spazio e il tempo non si alteravano: si laceravano. La stella diventava sempre più compatta e la sua densità aumentava a dismisura. La forza di gravità cresceva a tal punto che lo spazio si curvava infinitamente, chiudendosi su se stesso. Il risultato era una voragine senza fine, separata per sempre dal resto dell’universo. La chiamarono “la singolarità di Schwarzschild”».
Proprio La singolarità di Schwarzschild è il titolo dello spettacolo che inaugura la trentaduesima edizione di Mittlefest. Giacomo Pedini, regista e direttore artistico del festival dall’autunno 2020, sceglie di restituire integralmente il racconto di Labatut, affidandosi alle parole e alle evoluzioni muscolari di Eva Luna Betelli, danzatrice di formazione circense, e al violoncello di Michele Marco Rossi. Entrambi indossano abiti scuri con sopra disegnate fiamme di diversi colori e sfumature, simili a quelli dei video che sullo sfondo richiamano ambienti siderali come galassie, nebulose e buchi neri.
In scena spicca solitaria un’ampia impalcatura, costituita da uno spesso tubo piegato in modo da formare un’ellisse e collegata a due estremità, una alla base e una all’apice della scena, come una sorta di aerial hoop. Nel corso dello spettacolo, la struttura aumenta la propria carica semantica. Il suo moto rotatorio richiama quello dei pianeti; la sua cavità riprende il vuoto costitutivo della “singolarità”; le acrobazie aeree che Betelli vi pratica, utilizzandola come una sorta di sbarra, rappresentano i tormenti della mente di Schwarzschild, infestata dalle conclusioni della sua indagine:
«Persino nel caos della guerra, la singolarità si espandeva nella sua mente come una macchia, mescolandosi all’inferno delle trincee: la vedeva nelle ferite d’arma da fuoco dei suoi compagni, negli occhi dei cavalli morti nel fango, nel riflesso delle lenti delle maschere antigas».
A livello puramente letterario, il testo ha un andamento vivace, nonostante gli argomenti di cui tratta siano tutt’altro che vicini alla sensibilità e alla comprensione generali. Le ruvidità delle teorie del giovane scienziato vengono alleviate da una scrittura limpida e poco propensa all’ipotassi, mentre l’alternanza del piano concettuale e di quello biografico, anche grazie alla disobbedienza nei confronti del rigore cronologico, permette al lettore di godersi la costruzione di un personaggio sfaccettato e problematico.
Tuttavia, la trasposizione del testo compiuta da Pedini e realizzata da Benetti non sortisce la stessa sensazione di leggerezza e rapidità. Piuttosto, risulta difficile da seguire nell’enunciazione di principi astrofisici che, pur edulcorati, restano “duri” per un pubblico non di settore, ed enfatica, fino alla monotonia, nei momenti più concitati della tragedia personale e fisica del protagonista. I passaggi sintattici da fulminei si fanno spigolosi; le immagini evocate da nitide a nebulose. Talvolta accade che la voce di Benetti, arrampicata sulla struttura tubolare in movimento, si perda contro il fondale e non arrivi alle orecchie del pubblico. Le note decise del violoncello, i costumi sgargianti e i fondali pirotecnici non fanno che accentuare questa fusione di concettosità e didascalismo.
Viene da pensare che i tempi e gli spazi della letteratura siano diversi da quelli della scena e che il tentativo, seppur in qualche modo generoso, di preservare le parole di uno scrittore come Labatut, brillantemente rese dalla traduzione di Lisa Topi, porti come unico risultato quello di confonderli, fino a un inevitabile collasso.
Elementi di pregio: la ricchezza semantica della struttura ideata da Csaba Antal e realizzata da Delta Studios; la qualità letteraria del racconto di Benjamín Labatut.
Limiti: l’indirizzo drammaturgico “conservativo”, che non vede soluzione di continuità tra libro e scena; la recitazione enfatica e monocorde di Benetti; il didascalismo elementare di videoproiezioni e costumi.
La singolarità di Schwarzschild
Visto a Mittelfest 2022, il 22 luglio 2022.
tratto da Quando abbiamo smesso di capire il mondo di Benjamín Labatut
traduzione di Lisa Topi
con Eva Luna Betelli e Michele Marco Rossi (violoncello)
regia Giacomo Pedini
spazio scenico Csaba Antal
costumi Gianluca Sbicca
video Francesca Centonze
assistente alla regia Francesca Lombardi
scena realizzata da Delta Studios
costumi realizzati presso il laboratorio di sartoria del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
produzione Mittlefest2022
in co-produzione con Compagnia Umberto Orsini, Wrong Child Production
con la collaborazione di Associazione Circo all’InCirca
Si ringrazia Matteo Barsuglia per i suggerimenti nella ricerca di immagini e video astrofisici
Comments