Pubblichiamo il reportage dalla T3E Giorni Festival senza riportare i nomi degli organizzatori che, per far risaltare il collettivo sull’individuo, ci hanno chiesto questo accorgimento editoriale. Glielo accordiamo in quanto, da Oche, per i nostri lunghi viaggi, alla prodezza del singolo volatile preferiamo l’armonia dello stormo.
Benché saldamente arroccata nell’impervio appennino bolognese, più precisamente nel comune di Grizzana Morandi, anche La T3E Giorni Festival organizzata tra il 14 e il 16 giugno dal collettivo del Casale, i cui componenti dal 2019 risiedono a intervalli più o meno regolari in un antico casolare, è stata raggiunta dalle implacabili interrogazioni critiche sulla nuova generazione teatrale. Nel corso del festival, infatti, è stato presentato il nuovo numero de La Falena, dedicato appunto ai “Nuovissimi” – gli artisti italiani della scena Under 35. Al centro dell’incontro, una domanda che parte da lontano (per quel che riguarda L’Oca, almeno da qui, qui e qui): è possibile trovare un’estetica comune per artisti e gruppi nati in Italia negli ultimi dieci anni?
Come accade ormai abitualmente, dalla platea di artisti, appartenenti per la maggior parte a questa nuova generazione, non si è riusciti a raccogliere che risposte incerte, prima di passare a discutere di prove pagate, sale prova rare e costose e bandi – tra le pochissime e tiranniche fonti di reddito. Tra tutti, la performer Angela Dionisia Severino coglie un punto centrale e taglia corto con le trite derive retoriche sull’estetica del frammento, della resistenza, della resilienza, dell’inconcludenza: «Se non sai se domani sarai o meno un teatrante professionista, non puoi sapere neppure qual è la tua poetica».
Il discorso continua il giorno successivo mentre uno dei fondatori del Casale ci guida tra le strade tortuose che giungono all’imponente casolare. Più lo ascolto descrivere l’esperienza comunitaria che, da cinque anni, vede vivere o transitare una trentina di persone tra attori, registi e artigiani, più vedo una prassi che si scrolla di dosso le elucubrazioni e le parole d’ordine della critica militante. «Non mi sento di dire che facciamo politica. Cerchiamo soltanto di risolvere i problemi che si creano lungo il nostro percorso. Per fare un esempio: prima che tutto questo iniziasse, io stavo solo cercando una sala prove a basso costo». La stessa crescita del festival in questa terza edizione, spostandosi dal luogo fisico del Casale a uno, ben più ampio, gestito dalla Proloco intorno alla chiesa di Monteacuto Ragazza, è raccontata come il frutto di un’emergenza strutturale: a poche settimane dall’inizio della tre giorni è stato necessario procurarsi uno spazio alternativo che l’intera comunità ha contribuito a costruire, dai palchi allo stand dell’accoglienza, dalle docce esterne all’area bar.
Un’idea comunitaria sorveglia anche la direzione artistica, al cui sforzo contribuiscono tutti i componenti del Casale. Nonostante l’esteso numero di sguardi, il programma mantiene una certa coerenza. Lo spettacolo più isolato dagli altri è anche quello indirettamente più connesso alle discussioni sopra riportate: Gramsci Gay di Matteo Gatta ragiona, infatti, intorno al ruolo dell’intellettuale nella società italiana moderna e contemporanea. Nella prima parte, Marco Lamantia, veste i panni di Antonio Gramsci di fronte a un’assemblea di operai durante il “biennio rosso” che imperversò in Italia e in Europa tra il 1918 e il 1920. Lamantia esprime perfettamente la pacata, ma implacabile dialettica dell’intellettuale sardo contro i padroni delle fabbriche, lo Stato borghese, la sinistra moderata. Attraverso le sue parole, si delinea una figura capace di movimentare le masse, e in un certo senso di catechizzarle: «Non dobbiamo mai sottovalutare l’impatto che può avere un’idea». Al termine del concitato discorso, Lamantia esce e la scena si trasforma in una caserma delle forze dell’ordine di circa un secolo dopo. Lamantia riappare come Nino, ragazzo siciliano disoccupato, fermato in caserma per aver imbrattato con la scritta “gay” una manifesto di Gramsci. Lo sdegno espresso dall’attore, rispetto alla prima parte, è meno concentrato e vaga su coloro che lo tengono in custodia, sui propri genitori, sul Presidente della Repubblica e su Massimo Gramellini, che lo chiama per intervistarlo. È, questo, il punto saliente dello spettacolo, che intende sancire uno scollamento radicale tra popolo e intellighenzia italiana, chiusa in una bolla autoreferenziale e interessata agli strati inferiori della società soltanto per fare dello sporadico moralismo. Questo passaggio avrebbe, tuttavia, meritato più respiro, così da proporre un effettivo confronto, e non una semplice giustapposizione, tra due condizioni socio-culturali tanto distanti.
Concerto fetido di Alice e Davide Sinigaglia apre il battuto filone dell’ibridazione tra teatro e musica. Quello proposto dai fratelli spezzini è un teatro di rivista lisergico in un’atmosfera tra il soul e l’elettronica, dove Alice esibisce una voce acida e beffarda, mentre Davide sonorità aggressive, al microfono, alla batteria e al sintetizzatore. I due hanno qualcosa di primordiale e decadente, di appena sbocciato e già marcito. Nonostante l’entusiasmo provocato sul pubblico dalla performance musicale, la sua ibridazione con il teatro, tuttavia, sembra riuscire fino a un certo punto: il nucleo concettuale dello spettacolo, un invito alla retrocessione anti-civile da uomo ad animale, infatti, si perde e si contraddice in un’esaltazione dal sapore strapaesano del ritorno alla campagna, come se anche questa, benché apparentemente meno attraente della metropoli, non fosse il risultato di un controllo e di un’antropizzazione dello spazio.
Seguendo questo filone è assolutamente da citare, nonostante la sua predominante natura di concerto, la performance dei Putan Club, duo franco-italiano che al termine della seconda serata ha portato il suo «TransgenderElectronicIndustrialAvantRockTechnoEthnoWorldSauvagerie»: come una massa tribale, pestiamo i piedi e slanciamo gli arti intorno a Gianna Greco e François R. Cambuzat, incantati dalle pulsanti luci stroboscopiche abbandonate sul prato.
Un’atmosfera rituale attraversa anche Witch is di Landi-Mignemi-Paris, dove è investigata la figura della donna-strega, oppressa nei secoli da diverse forme di potere, rappresentato ora dagli autori del Malleus Maleficarum (tradotto come Il martello delle streghe) del 1486, ora da un medico obiettore di coscienza, ora da uno specchio dall’eloquio spietato. Sono messe in scena diverse situazioni di condanna al corpo, alla sessualità e all’identità femminili attraverso cantilene, filastrocche, ma anche sonorità più contemporanee, come quelle pop-elettroniche composte da Andrea Centonza. La corona d’alberi sullo sfondo, tempestosamente mossa dal vento, realizza un’atmosfera di tregenda shakespeariana, in cui si manifestano Eleonora Paris, eterea e diafana, Cristiana Tramparulo, idolo bronzeo, e Giorgia Iolanda Barsotti, matrona elettrica. La posizione ideologica del testo si esplicita nel finale, con un elogio della lotta e un invito alla liberazione dalle costrizioni socio-culturali, in cui è sacrificata la ieraticità rituale per un afflato militante che già serpeggia nelle scene precedenti e di cui, di conseguenza, non si sente particolarmente il bisogno.
Se in questa tre giorni Gramsci Gay è l’eccezione, Pigiama Party di Collettivo Baladam B-side è il ponte: in esso è presente sia la componente musicale dei primi spettacoli, sia quella partecipativa e processuale propria dei successivi.
Benché schiacciata sotto una lente ironica, nell’incontro post-spettacolo che viene messo in scena in Pigiama Party è presente una certa componente rituale e sacrale, quella del teatro “qui e ora”, dei registi illuminati da un estro metafisico e delle interpreti disposte a tutto pur di soddisfarne l’ego. Antonio “Tony” Baladam e Alessia Sala impersonano rispettivamente il regista e la protagonista di una colossale riscrittura delle Baccanti di Euripide che si pretende essere appena terminata. Di fronte alle domande di un critico (Giacomo Tamburini), i due, con compiaciuto entusiasmo, ci spingono a immaginare un delirante spettacolo impossibile, inframmezzandone la descrizione con screzi personali, momenti di complicità, inganni all’intervistatore e scene improvvisate lì per lì. La tragedia calerà su una di queste ultime, per essere immediatamente smussata dalla coinvolgente interpretazione di Son of a Preacher Man di Dusty Springfield da parte di un cadavere. Senza quasi alcun oggetto di scena che non sia una chitarra classica, tre sedie e un coltello finto, i Badalam B-side ci conducono lungo un esilarante percorso immaginifico in cui vengono motteggiate le spacconate artistoidi e le pose intellettuali che così frequentemente vediamo – e mettiamo – in atto sui palcoscenici e nei foyer dei nostri teatri.
Tra le pieghe dell’immaginazione dello spettatore lavora anche Maria Luisa Usai in I will write you something new. La performer sarda spiega di aver avviato, durante il periodo di distanziamento sociale, la curiosa pratica di scrivere lettere a persone sconosciute attraverso una chiamata pubblica su Instagram: coloro che avessero risposto lasciando il proprio indirizzo avrebbero ricevuto una lettera dall’artista, con la possibilità di sviluppare una relazione epistolare con lei. Data la preferenza accordata dall’artista alla spiegazione del processo piuttosto che al racconto delle storie raccolte in questo esperimento, c’è l’impressione che la quantità di lettere, biglietti, messaggi, cartoline sparsa sul tavolo davanti a cui siamo seduti non sia stata pienamente sfruttata. Tuttavia, contemporaneamente, riconosciamo in questa scelta un’inclinazione concettuale che non riempie, ma libera spazio, costruendo un dispositivo non tanto per l’osservazione, quanto per l’attivazione dello spettatore. Al termine della presentazione siamo appunto invitati ad assecondare «il bisogno di ritagliare pezzi di tempo» e a scrivere una lettera a una persona sconosciuta, scelta autonomamente da Usai nel suo indirizzario, concedendoci un momento di distensione, di riflessione e di ascolto, sollevato dall’allegro, ma incessante, fermento della tre giorni.
Anche i Ctrl+Alt+Canc, con un dichiarato rifiuto della rappresentazione già rilevato in Opera didascalica, intendono sollecitare l’immaginazione dello spettatore, ma più attraverso la provocazione che il rilassamento.
In Afanìsi (dal greco aphanisis, “scomparsa”), Raimonda Maraviglia, Alessandro Paschitto e Francesco Roccasecca si pongono al servizio di chi guarda, ma è fin da subito un servizio truccato: i tre dirigono i nostri pensieri come seducenti Pigmalioni, in maniera ironica e divertita, ma anche brutale, intrusiva, a volte violenta. Siamo, per esempio, spinti a immaginare la persona che amiamo, i suoi occhi, la sua camminata lungo il palcoscenico. Siamo invitati a figurarcene la morte, ad ascoltarne le ultime parole. È un’efferatezza dell’immaginario che investe anche la serie di scene di varia, gloriosa, assurdità con cui gli attori, per esemplificare la capacità icastica del teatro, invadono lo spazio tutt’intorno: dalle urla che Roccasecca riversa su di noi dalla cima del campanile retrostante, alla rocambolesca fuga in macchina in cui questi e Paschitto si lanciano a tutta velocità nel prato dietro la platea.
Veniamo inseguiti dalle tempestose domande dei Ctrl+Alt+Canc per l’intera durata dello spettacolo, fino a che non siamo invitati a riconoscerne il risultato negli autoritratti mentali ed emotivi che abbiamo costruito fino a quel momento. Certo, sono autoritratti guidati, ma comunque indici di qualcosa di essenziale: ci sentiamo presi in una griglia, ma comunque differenti dal nostro vicino, originali nella serialità, perfettamente in linea con lo spirito decostruzionista e postmoderno del gruppo partenopeo.
Come sempre quando si scrive di un festival di teatro under 35, sarebbe auspicabile identificare delle direttrici che, pur di malavoglia, portino a identificare degli snodi generazionali. Alla T3E Giorni emergono chiaramente due linee: l’ibridazione tra teatro e musica e la tendenza al “meta”, nell’esplicitazione, nell’analisi e nella critica del processo creativo. Se non possiamo affermare l’originalità di quest’ultima, dobbiamo anche constatare la natura squisitamente formale della prima. Entrambe, auspicabilmente, saranno prima o dopo soggette a discussioni e superamenti da parte degli stessi artisti e artiste che ora le attraversano.
Forse allora, se una direttrice va scovata, è necessario tornare a ragionare sul Casale in quanto comunità artistica e identificarvi una dinamica emergente che meriterebbe successivi approfondimenti (guardando anche, per esempio, all’esperienza dell’Anello Debole nelle campagne parmensi): c’è un tentativo dei lavoratori dello spettacolo di reagire alla presente crisi economica e sociale portando la discussione non solo, e non tanto, a un livello estetico, quanto a uno pratico, quotidiano, riguardante l’abitare e la costruzione, senza troppi clamori e manifesti politici, di micro-comunità fondate su dinamiche diverse da quelle conosciute dalla maggior parte delle persone. È probabile che anche questa tendenza trovi riscontri in altri luoghi e altri tempi: sarebbe comunque il ritorno di qualcosa su cui vale la pena tenere l’occhio.
Yorumlar