Lo zoo di vetro è una pièce di Tennessee Williams, composta e messa in scena nel 1944 e tratta da un suo racconto, scritto circa dieci anni prima.
Il racconto è, in parte, autobiografico: lo stesso Tennessee – il cui nome in realtà è Thomas, come il protagonista maschile immortalato sia sulla pagina sia sulla scena – disse di essersi ispirato alla propria storia famigliare, incentrata sulla figura della sorella, Laura, una giovane fragile, intenta a ritirarsi dal mondo con metodica discrezione. Essa insegue Tennessee/Thomas come un esile e riverberante fantasma, come il simbolo di un’espiazione mai completamente riuscita. Il titolo del racconto è Portrait of a girl in glass: Ritratto della ragazza di vetro, mentre quello della drammaturgia scritta successivamente diventa The Glass Managerie, con il riferimento materiale al vetro che resiste, sublimato, come struttura portante del racconto stesso, e del suo significato più profondo.
La ragazza di vetro è Laura: la sua essenza invisibile – trasparente – viene in qualche modo trasposta nella concretezza metaforica di uno zoo di vetro, la collezione di animali di cui si prende ossessivamente cura tra le pareti di casa, lascito del padre di cui l’intera famiglia anni prima ha sofferto l’abbandono. Laura, il fratello Tom e la madre Amanda vivono all’ombra di questo tragico evento, in un immobilismo sociale ed emotivo colmo di malessere e paura.
La casa è l’archetipo che riassume alla perfezione quest’ambivalenza schizogenica: da una parte rappresenta il luogo più sicuro a cui rimanere fedeli, acquattati al suo interno come in una tana, fuori dalla mira di predatori e cacciatori; dall’altra è l’inferno spinato da cui fuggire, la prigione che preclude ogni libera scelta, ogni battito d’ali. La libertà è qualcosa a cui si anela per tutto lo spettacolo ma che fa paura, così come la felicità, disperatamente ricercata da Amanda per i propri figli e da lei stessa inconsciamente sottratta e ostacolata. Il focolare domestico sembra essere l’estensione fisica diretta del potere materno, del suo aggressivo accudimento. Una sorta di utero amplificato, impossibilitato a “lasciare andare” nel mondo le proprie creature, negando così a livello ontologico la propria funzionalità: la nascita.
Non è facile rendere sulla scena uno spettacolo che ha in sé dei richiami psicanalitici così forti e suggestivi: la regia di Leonardo Lidi ha tratto incisività e linfa essenziali dal lavoro sopraffino della costumista Aurora Damanti e dalle scene curate da Nicolas Bovey.
Il perimetro lezioso della casa tinta a colori pastello, i costumi malinconici da clown e Pierrot d’altri tempi indossati dagli interpreti visualizzano in modo efficace l’estraneità e l’isolamento che questo gruppo famigliare vive rispetto al mondo esterno: Amanda è spinta da un’illusione di controllo sulla realtà che verrà disatteso da entrambi i figli; Laura vive chiusa in casa, sabotando di nascosto scuole e lavori, e danza imperterrita con i propri fantasmi d’abbandono, rifugiandosi in un mondo privato e inaccessibile, la cui invisibilità è sottolineata dai movimenti di scena in cui l’attrice mima oggetti inesistenti (giornali, candelabri, cuscini e naturalmente il suo piccolo popolo di animali di vetro); Tom, infine, schiacciato dalla responsabilità famigliare, minacciato dal cattivo esempio paterno, si stanca di rifugiarsi nel mondo onirico del cinematografo e alla fine cede; si fa fagocitare dall’ombra del padre, replicando lo stesso atto di fuga ai danni delle due donne e concretizzando così una profezia autoavverante.
Ma prima che tutto ciò accada e ogni possibile, fittizio equilibrio vada in frantumi, il drammaturgo inserisce una figura esogena destinata a fare la differenza nella narrazione, nel bene e nel male; Jim O’Connell incarna una sorta di arcangelo, un vero e proprio messaggero terrestre, portatore di un’energia tellurica nella vita fluttuante dei tre protagonisti, eternamente disancorati dalla realtà circostante.
Incalzato dalla madre, Tom invita a cena per un incontro galante e informale con Laura (la figlia secondo Amanda è “da sistemare”) un proprio collega di lavoro, dall’energia e carisma travolgenti: Jim, per l’appunto. Ma si dà il caso che non sia lo sconosciuto che si pensa ma, piuttosto, un compagno delle superiori di Tom, di cui Laura era segretamente invaghita. L’incontro è quindi denso di emozioni contraddittorie, e vede a un certo punto sbocciare un’intimità delicata e sincera tra i due, tanto da spingere Laura a mostrare a Jim il proprio prezioso zoo. Laura, la ragazza di vetro, si sente vista, per la prima volta, e ricambia lo sguardo mostrando devotamente i simulacri della propria anima; tra tutti spicca un unicorno di vetro, il suo preferito, il cui corno (simbolo della sua essenza e unicità) verrà spezzato da Jim stesso poco dopo, inciampando nella scatola che contiene gli animali durante un ballo corpo a corpo. L’incantesimo è spezzato: Laura subisce l’atto d’amore di Jim (quello che assomiglia drammaticamente a uno stupro), mentre lui le confessa di stare per sposarsi con un’altra donna. I mondi si sfiorano, il nido è quasi lasciato: Laura, come una moderna Euridice, viene ricacciata indietro, nell’ombra, e questa volta per sempre.
La figura di Jim è stata resa un poco debolmente in scena: forse avrebbe aiutato una distinzione maggiore dal resto degli interpreti, anche a livello di costumi e di presenza. Si intuisce il dramma del sogno infranto e della vittoria di una realtà prosaica, inclemente, senza arrivare però a una climax emotiva adeguata, raggiunta in altri momenti dello spettacolo: penso ad esempio al litigio corale tra la madre e Tom, che dialogano in sincrono e in un crescendo continuo, con intenzioni diverse e sovrapposte, in grado di regalare brividi alla platea.
Lo spettacolo in effetti ha un’andatura molto simile a quella della sua protagonista, e non per forza in un senso negativo: è claudicante, un po’ incerta, nonostante la potenza visiva e la generosità attoriale. Sembra non riuscire a prendere una direzione ritmica decisa, in grado di consegnarci a un flusso emotivo costante e immersivo. Nonostante questo, vi sono momenti di una densità eccezionale e decisamente funzionali alla storia: non dimenticherò facilmente il finale, accompagnato dal tonfo delle pareti che finalmente cedono al terremoto del reale, sollevando in un triste battito la neve-piuma (polistirolo) di cui il palcoscenico era ricoperto.
Lasciamo la sala Ivo Chiesa con un cuore più pesante, appassito, e quasi viene voglia di voltarsi ancora, per cercare come Tom il riflesso di Laura che si sporge piano, in silenzio, dal bordo di una casa che, almeno nella memoria, esisterà per sempre, e di una vita che affievolisce, lontana. Mai accesa, mai spenta.
Elementi di pregio: La messinscena originale, intensa e aggraziata, che grazie all’utilizzo degli elementi di clownerie ben rende l’oniricità e la drammaticità della storia.
Limiti: La sensazione che mancasse qualcosa di ritmico di più definito e incalzante.
Lo zoo di vetro
Visto al Teatro Nazionale, il 18 febbraio 2022.
Traduzione Gerardo Guerrieri
Adattamento e regia Leonardo Lidi
Interpreti Lorenzo Bartoli, Tindaro Granata, Mariangela Granelli, Anahì Traversi
Scene e light design Nicolas Bovey
Costumi Aurora Damanti
Sound design Dario Felli
Foto Masiar Pasquali
Produzione LAC LUGANO ARTE E CULTURA in coproduzione con TEATRO CARCANO CENTRO D’ARTE CONTEMPORANEA, TPE – TEATRO PIEMONTE EUROPA in collaborazione con CENTRO TEATRALE SANTACRISTINA
Comments