Per la ventunesima edizione del Danae Festival, il talento organizzativo di Zona K e Teatro delle Moire ha avuto il coraggio e la qualità di scegliere di sostenere per il secondo anno consecutivo L'uomo che cammina, sorprendente performance ideata da Valerio Sirna e Leonardo Delogu – fondatori del progetto DOM, insieme a Hélène Gautier – esperienza teatrale che trae liberamente ispirazione da un omonimo manga di Jiro Taniguchi, del quale Sirna e Delogu rispettano con delicatezza l’essenza più intima, il motore: il cammino come partecipazione attiva alla realtà. In questa versione milanese, l'uomo che cammina è il drammaturgo e scrittore Antonio Moresco, intorno al quale si dipana una partitura unica e coerente, fedele al suo mondo crudo e schietto.
Il sito web di DOM, per chi volesse saperne di più, merita, per la chiarezza dei contenuti programmatici e per la ricchezza dei temi e dei materiali, un passaggio di approfondimento, ma al fine di rileggere la mia specifica esperienza performativa basterà sapere, semplificando, che il centro nevralgico de L'uomo che cammina è una proposta di riabitazione degli spazi urbani, un loro concreto attraversamento secondo una logica di riappropriazione fisica, emotiva, poetica, sensibile.
Si parte dal Museo del Novecento in Piazza Duomo e si finisce all'hotel Corvetto, nelle vicinanze di Rogoredo, dopo quattro ore di camminata fitta, con lo stesso medesimo ritmo, un passo dopo l'altro, attraverso quartieri periferici, ora animati e vivi di umanità varia, ora isolati, deserti, in rovina, tra edifici anni sessanta sonnecchianti nel crepuscolo, parchi sterminati che terminano in sentieri fangosi e snodi di strade provinciali, bozze di realtà incastonate in brevi cenni performativi e viceversa, personaggi casuali, o passanti, che condividono il loro spazio quotidiano con altri creati, invece, ad arte. Poche e decisive le pause dal cammino vero e proprio: una tratta in metropolitana, una tra i banchi della commovente Abbazia di Chiaravalle, una in una piscina sportiva, l'ultima in una piazza nei pressi di Corvetto, poco prima della conclusione del percorso.
Ed è tutto qui.
Dove per "tutto qui" non si allude certo a un contenuto limitato e deludente, bensì al tentativo di considerare, in un'espressione così essenziale, il senso di uno spazio percettivo infinito, capace di includere in un'idea, solo apparentemente semplice, un “tutto”, una molteplicità commovente di sensazioni, e un “qui”, luogo sfuggente per nulla quotidiano e per nulla autentico e che pure con il quotidiano e l'autentico ha a che fare.
Il “tutto qui” dell'uomo che cammina è un movimento continuo che, prima timidamente, poi con sempre maggiore consapevolezza unisce, davvero, una quindicina di spettatori con mantelline e ombrelli nel non fiatare per tutte le quattro ore – e senza averlo deciso prima, in perfetta sintonia, semplicemente accettando, così, la piena responsabilità del sentire, del vedere, del camminare, in mezzo a una Milano inedita, insospettabile, vera, emozionante. Brutta, orribile, bella, irresistibile.
Sono tre i principali risultati di chi accetta davvero fino in fondo il gioco proposto da L'uomo che cammina e si conquistano, come tutte le cose davvero memorabili della vita, con fatica e perseveranza:
1) la perfezione della percezione – guardare diventa una ricerca, la ricerca dell'uomo che davanti a noi si mostra e si nasconde, rivelandoci la città, ovvero osservandola scorrere, vecchia e nuova insieme, mentre ci soffermiamo, solo per un attimo, su un dettaglio, una sensazione, uno stimolo; sentire diventa una ricomposizione di elementi sonori, riprodotti dalle casse che ci accompagnano o scaturiti dal rumore casuale del mondo; toccare, affondare nel fango, scivolare sull'asfalto bagnato, evitare di essere investiti da un'automobile, godersi, dopo tanta acqua, il tepore di un rito religioso in un'abbazia medievale, condividere un trancio di pizza e un bicchiere di birra dopo la solitudine di un lungo percorso, lo stare assiepati su un gradone di una piscina pubblica vuota per osservare a fondo la nuotata lenta di una performer, nel silenzio, mentre la città si muove là fuori;
2) l'aspirazione alla poesia – quella che consente a un gruppo di spettatori di trovarsi, per esempio, al cospetto di una discarica a cielo aperto, verissima, nel cuore di un parco immenso e nello stesso tempo di accettare la visione di ragazzini, spuntati da chissà dove, che ci tengono d’occhio da lontano, dietro alberi, cespugli, immobili nelle radure umide. Letteralmente ci fissano e ci gela il sangue, perché è come se attendessero da noi una risposta. E poi spariscono, all’improvviso. Ma nei nostri occhi invece, non ci sono risposte né domande, solo il vuoto di chi osserva e si lascia osservare, senza alcuna paura di ciò che lo spettacolo/performance non può prevedere completamente: la realtà. In questa tensione insita nella coabitazione di ciò che è previsto e ciò che non è previsto che sia lì, c'è la poesia.
3) la nostra trasformazione – noi che seguiamo l'uomo che cammina perché siamo pubblico di uno spettacolo in un festival ci trasformiamo, lentamente, in una persona che cammina e basta. Io divento l'uomo che cammina. E non è un processo di identificazione rispetto all'uomo che all'inizio del percorso mi era stato chiesto di seguire, tutt'altro è una diversificazione evidente e dichiarata. Ma è una condivisione di uno stato, di una natura, di una condizione umana. Per ottenere questo risultato impensabile e perché questo possa essere considerato un risultato straordinario, quasi utopistico, basta semplicemente avere un passo regolare, un respiro profondo. E poi ci vuole il senso del tempo, che non ha a che fare con il “tempismo”, ma con una cieca fiducia nella drammaturgia impercettibile di questa performance, che sa leggere sapientemente l'evoluzione di una camminata e aspetta che ognuno senta due o tre ore nelle gambe, prima di far sentire una voce umana che racconti qualcosa.
Proprio nel momento in cui ognuno di noi percepisce l'effetto di questa trasformazione e ci sembra quasi di essere diventati l'uomo che cammina, e non prima, da una delle casse che ci accompagnano vengono fuori i racconti di Antonio Moresco.
E questo è l'ultimo capoverso della mia testimonianza critica.
Dedicato alla potenza delle storie di Moresco, ricchezza e pregio, nel timbro sofferente, nel lessico crudele dei suoi incontri di camminatore notturno, nel dolore e nell'ironia di chi decide di condividere quello che ha visto, in una sequenza ininterrotta di ricordi, persone, pianti, bevute, risse, abbracci.
Un testo stupendo, scandito senza nascondigli, mentre i passi affondano nella terra umida ed è arrivata ormai la sera.
Antonio Moresco con una torcia ci mostra un sentiero che conosce benissimo, in mezzo a pozze di acquedotti, bacini, torrenti, poi improvvisamente di nuovo la città, il traffico, i ragazzini, ancora loro, gli stessi che ci fissavano da lontano, ci rendiamo conto che ci hanno sempre seguiti, da Piazza Duomo, che ora corrono felici, senza alcun motivo apparente, in un deserto d'asfalto ed è un momento di emozione purissima.
Infine gli applausi, da un marciapiede all’altro, mentre un lungo autobus ci divide improvvisamente da tutti quelli che hanno fatto questo viaggio con noi, davanti all’hotel in cui si conclude. Un uomo, un passante, dietro l’oscurità della sua finestra, guarda giù e si chiede perché stiamo applaudendo. Che cosa sia successo. Ed è questa la chiave del tutto qui, per me.
Qualunque cosa sia successa oggi pomeriggio non succederà mai più nello stesso modo.
Questo è merito non del teatro, ma di questo teatro.
Non dell’arte, ma di questa arte.
Elementi di pregio: tutto qui.
Limiti: solo fisici, se il corpo decide di non voler accettare la proposta di DOM, di non voler camminare, di non volersi emozionare.
Ci tengo a fare un ringraziamento particolare, oltre che a tutto lo staff del Festival, alla signora Renata Viola, responsabile dell'ufficio stampa, per la gentilezza e l'organizzazione eccellente nonostante le difficoltà legate al meteo.
Visto sabato 19 ottobre 2019
L’uomo che cammina
creazione, drammaturgia spaziale e regia DOM- Leonardo Delogu, Valerio Sirna
con Antonio Moresco e con Paola Galassi, Isabella Macchi con la partecipazione degli allievi di ITAS Giulio Natta grazie a Studio Azzurro
prodotto da Teatro Stabile dell’Umbria, Danae Festival, Zona K
organizzazione Francesca Agabiti
liberamente ispirato al fumetto di Jiro Taniguchi – L’uomo che cammina
documentazione audiovisiva Studio Azzurro
musiche originali Fabio Zuffanti
elaborazione suono Lorenzo Danesin
Un ringraziamento particolare alla associazione Terzo Paesaggio
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