È da anni che Carrozzeria Orfeo fa tappa nella mia città, come un’esotica carovana nomade, ed è da anni che puntualmente riesco a perdermela. Thanks for Vaselina è un titolo che mi insegue testardo da più di un lustro, Cous Cous Klan rappresenta uno dei rimpianti teatrali più grandi che gravi sulle mie spalle: erano anni in cui mi spostavo da una città all’altra, per cui tenere un calendario teatrale risultava incredibilmente complesso (sì, cerco tutt’oggi di giustificarmi).
Quindi, eccomi qui davanti all’entrata del Teatro Modena, il 19 novembre 2021: vergine, traboccante di aspettative, e poco importa il vento artico che come al solito spazza la piazzetta palmata e mi schiaffeggia la sciarpa in faccia.
La sala è abbastanza gremita; quando le luci si spengono e il sipario si spalanca impaziente, un silenzio d’una densità rara (che però – ahimé – rimpiangerò durante la serata) piomba in platea.
Ed è stato l’inizio. Il meccanismo sopraffino, da bomba a orologeria, con cui lo spettacolo è confezionato lo rende paragonabile a una qualche forza naturale d’incommensurabile potenza scenica. Un uragano, un maremoto, un sisma: l’eccezionalità di Miracoli Metropolitani sta però proprio nell’essere riuscito a imbrigliare questo tipo di energia tellurica in un prodotto teatrale completo, come non ne vedevo in giro da anni, e dal forte linguaggio cinematografico, a partire dalla drammaturgia di Gabriele Di Luca, complessa e scanzonata, drammatica ma che riesce a non prendersi troppo sul serio mentre “sbudella” emotivamente il proprio pubblico. Il ritmo è ipnotico, serrato, in grado di alternare con facilità botta-e-risposta d’irresistibile comicità e squarci esistenziali che si spalancano sull’inevitabile quotidianità del male di vivere. Il risultato è un montaggio mozzafiato, arricchito da zoomate e dezoomate sulle singole scene e sui singoli personaggi che dinamizzano il racconto, dosandone la velocità e impreziosendo i momenti d’intimità.
L’ambientazione è quella di un mondo non troppo lontano dal nostro, dove le fognature corrodono le città rischiando di ingoiarle e sommergerle negli stessi rifiuti che hanno contribuito a produrre, e dove la questione “morte all’immigrato” sta decisamente sfuggendo di mano, con riferimenti espliciti a recrudescenze nazi-fasciste. Ma tutto questo raggiunge la scena come un’eco esterna che s’infiltra nella cucina-casa di un ristorante specializzato in food delivery: è qui che facciamo la conoscenza di tutti i personaggi, equamente protagonisti della storia, eccessivi, caricaturali come le maschere grottesche di una Nuova Commedia dell’Arte. Siamo noi, siamo le persone che conosciamo, quelle che non conosciamo, elevate all’ennesima potenza.
In scena sono semplicemente irresistibili, complici una scrittura scenica che li definisce virgola per virgola e punto su punto e le capacità attoriali trascinanti di ogni singolo attore, che trasudano talento, energia, professionalità da ogni poro. Non lesinare sull’energia in uno spettacolo del genere è questione infatti non solo di grande generosità ma anche di indubbia capacità: la tensione non scende neppure per un secondo, senza risultare stancante. Puro funambolismo teatrale.
I momenti emotivi dello spettacolo conservano intensità e delicatezza, per poi essere di continuo ribaltati da un cambio di registro inaspettato. Questi cambi sono costanti, e feroci: ma è proprio questa ferocia che li rende autentici, permettendoci un’immedesimazione totale nonostante lo spettacolo assuma via via sfumature sempre più estreme, concludendosi all’apice di un surrealismo magico, un po’ punk, dove la speranza e la disperazione si confondono in un abbraccio tormentato, esplosivo.
A Carrozzeria Orfeo dobbiamo questa catarsi in grado di confondere le linee della commozione in quelle di un sorriso e viceversa, mentre riecheggiano le parole del Sisifo di Albert Camus. Sì, la vita è una fatica spesso ingiusta, fatta di dolori irrisolti, meschineria, confusione e – letteralmente – merda. Ma se c’è una cosa che può rendere sopportabile questa condizione assurda, incomprensibile, ovvero quella che Camus metaforicamente ricondusse al mito di Sisifo, dove noi umani siamo costretti – proprio come Sisifo – a trascinare un masso sulla montagna, destinato a sfuggirci di mano e ricadere sempre indietro, nei secoli dei secoli...è immaginare che lo stiamo facendo con un sorriso stampato in faccia, e qualcosa che, forse, può essere chiamata felicità. Ridere in faccia all’assurdo, che poi è quello che abbiamo fatto insieme in quel teatro, per due ore e un quarto di spettacolo.
Visto il 19 novembre 2021 al Teatro Modena.
Pregi: Il suo essere cosmico, universale; la capacità di unire gli opposti in un equilibrio dal gusto inconfondibile e unico; gli attori strepitosi; l’accuratezza scenica; la raffinata potenza drammaturgica. Energia allo stato puro, senza paura.
Limiti: Il pubblico quella sera ha battuto le mani ad ogni silenzio o cambio di scena che durasse più di 2/3 secondi: una cosa che dopo un po’ trovo distraente, superflua, isterica. Tuttavia, questa postilla non c’entra con lo spettacolo in sé; sullo spettacolo direi solo che a volte sono state fatte delle scelte leggermente “piacione”, che strizzavano bonariamente gli occhi al pubblico.
drammaturgia Gabriele Di Luca regia Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti, Alessandro Tedeschi
con (in o.a.) Elsa Bossi Patty Ambra Chiarello Hope Federico Gatti Igor Beatrice Schiros Clara Massimiliano Setti Cesare Federico Vanni Plinio Aleph Viola Mosquito/Mohamed
Si ringrazia Barbara Ronchi per la voce della moglie
musiche originali Massimiliano Setti scenografia e luci Lucio Diana costumi Stefania Cempini
illustrazione locandina Federico Bassi foto di scena Laila Pozzo organizzazione Luisa Supino, Natascia Sollecito Mascetti ufficio stampa Raffaella Ilari
una coproduzione Marche Teatro, Teatro dell’Elfo, Teatro Nazionale di Genova, Fondazione Teatro di Napoli -Teatro Bellini in collaborazione con il Centro di Residenza dell’Emilia-Romagna “L’arboreto – Teatro Dimora | La Corte Ospitale”
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