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Federico Pedriali

Mistero Buffo


Dopo quasi cinquant’anni dalla sua creazione, uno degli aspetti più sbalorditivi di Mistero Buffo, se non il più eccezionale, rimane la sua essenzialità. Lo spettacolo non necessita di costumi, non ha bisogno di luci, non si appoggia su musica, scenografia o accessori; il suo unico fondamentale pilastro è l’attore.

Che cosa è indispensabile, oggi come sempre, per fare teatro? Dario Fo e Ugo Dighero pongono alla base dei loro omonimi spettacoli la stessa domanda, ma non solo: che cos’è lo spazio scenico? quali sono le potenzialità dei mezzi dell’attore? In questo, come in molti altri casi, ci si stupisce nel constatare come siano proprio le questioni più semplici a suscitare gli interrogativi più complicati e le conseguenze più significative.

In Mistero Buffo il palcoscenico assume qualità evocative: la ricostruzione sintetica e a volte ancora naturalistica della scena viene sostituita da uno “spazio vuoto”, una realtà fisica non connotata in cui si possa ritornare a pensare il teatro come esperienza delle possibilità. Seguendo questa linea drammaturgica, l’attore diventa un mago, capace di dar vita all’invisibile e di creare infiniti mondi con il linguaggio del corpo e della voce.

Oltre all’indiscutibile abilità, stupisce di questa operazione anche la responsabilità richiesta all’attore, incaricato di creare un contatto vivo e confidenziale con chi lo guarda e ascolta: in particolare, su Ugo Dighero grava non solo tutto questo, ma anche la grande eredità di Dario Fo in uno spettacolo che ha fatto storia.

Va per prima cosa evidenziato come Dighero riesca a portare sulla scena un discorso compiuto e interessante, anche se con evidenti sbavature: l’opera, nonostante il palese intento di personalizzazione da parte dell’attore, perde gran parte del suo spessore quantitativo, riducendosi a solo due racconti; inoltre le due “giullarate” non appartengono all’originale cornice di Mistero Buffo, ma sono tratte da altre raccolte di testi dello stesso autore; infine il collegamento tematico tra le due storie - una basata sui vangeli apocrifi, l’altra su un racconto di stampo boccaccesco - risulta un po’ forzato, creando dubbi anche sul titolo stesso dello spettacolo.

Un successo a metà si potrebbe concludere, dal momento che la relazione teatrale funziona a tal punto da risultare sinceramente personale. A tal proposito può essere utile riportare l’inizio dello spettacolo, in cui Dighero, prima di cominciare con le “giullarate” ci racconta della Paralisi di Bell, una disfunzione temporanea dei muscoli che immobilizza metà del suo viso da qualche giorno: è probabilmente il momento più significativo di tutta la serata. E’ innegabile infatti che la relazione teatrale si sia già formata e che il terreno predisposto dall’attore lo accompagnerà per tutta la performance: lo spettacolo dunque, attraverso la condivisione/confessione di un disagio, è già iniziato.

Per concludere, va notato che lo stesso processo avviene in modalità diverse sul finale, momento in cui l’attore decide di allungare il piccolo programma del suo Mistero Buffo, deliziando lo spettatore con una sua poesia futurista: la serata ora ha decisamente preso un’altra piega, ma la relazione teatrale rimane esattamente la stessa. E mentre Dighero conquista dei facili applausi con una satira politica di repertorio, l’attore conclude dicendoci: “È sempre una gioia recitare nella propria città”. Inizio e fine, due modi diversi di creare una relazione teatrale, due modi opposti di riflettere sull’infinita potenzialità dei mezzi dell’attore.

Elementi di pregio: relazione diretta tra attore e spettatore

Limiti: lo spettacolo non dovrebbe chiamarsi Mistero Buffo

Visto al Teatro Duse il 13/01/2018

Spettacolo prodotto dal Teatro dell’Archivolto

Testi di Dario Fo

Regia Ugo Dighero

Interprete Ugo Dighero

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