Aïcha ha tredici anni, vive alla periferia di Montréal e ha paura della fine del mondo e delle siringhe lasciate a terra dai tossici. O meglio, queste sono le paure che riesce a raccontare, forse le uniche che è in grado di guardare in faccia da una distanza sufficiente a poterle descrivere, a poterne in fondo anche ridere. Tutto il resto, tutti i timori, tutto il dolore – tutta «la merda», come non perde occasione di definirla nel suo linguaggio forzatamente sboccato – è dentro, sepolto sotto una corazza di rabbia e troppi strati di mezze verità, illusioni, parole appuntite nel tentativo di difendersi. Parole che sono tantissime, e scorrono fuori dalla bocca di Aïcha a una velocità insensata, disperata, lasciando che la lingua rincorra il tempo e la realtà rincorra l’immaginazione, cercando forse di confondere gli altri ma soprattutto se stessa, in un’ora e quaranta di monologo inarrestabile.
In quelle parole c’è prima di tutto la sua storia, quella di una bambina nata per sbaglio – uno sbaglio che alla madre lei non perdonerà mai – e cresciuta per i primi anni della sua vita con un uomo che non può essere suo padre, né da un punto di vista biologico né, soprattutto, da un punto di vista emotivo, trasformando così il loro rapporto in qualcosa che dal racconto della ragazzina emerge solo a poco a poco, in un irriducibile uso improprio dei termini amore, abuso, affetto, violenza. Aïcha non comprende la propria sofferenza, non sa dare nomi alle sue ferite e attribuisce colpe con un criterio illogico eppure forse funzionale a proteggerla, cercando di convincere il suo interlocutore di essere vittima più di sua madre che del patrigno, più dell’amore che dell’insopprimibile desiderio di un affetto qualsiasi. E quasi si sorride a sentirla parlare freneticamente di baci immaginati e grandi amori romantici, il cui agognato destinatario è Baz, un giovane uomo che la tratta come una sorellina per cui prova compassione e tenerezza, nulla di paragonabile a quello di cui lei sente disperatamente bisogno.
Ma nelle parole di Aïcha c’è anche la destinataria muta di questo racconto: Elena Dragonetti, silenziosamente seduta a un tavolo alle spalle del pubblico, è un’assistente sociale che prende appunti all’indomani di un omicidio, nel tentativo di capire se questa insanabile mancanza d’amore possa essersi trasformata in violenza e la vittima in carnefice. E se del personaggio che la Dragonetti impersona lo spettacolo potrebbe persino fare a meno, altrettanto non si può dire della sua regia, improntata alla semplicità e tuttavia fondamentale e ben visibile tanto nella disposizione dei pochi oggetti scenici quanto nella misura pressoché perfetta dei toni e dei movimenti dell’attrice. A meno di un anno da Swing Heil! la regista torna a lavorare sull’adolescenza e lo fa ancora una volta dirigendo un’attrice molto giovane e non professionista, selezionata appositamente per l’intensità e passionalità propria di chi l’adolescenza l’ha appena vissuta.
Marta Prunotto, sola in scena sul palco del Teatro della Tosse, riesce alla perfezione a incarnare queste caratteristiche rendendo quello di Aïcha un monologo denso, magmatico, animato da bisogni voraci e disperati, restituendo un’impressione di naturalezza spesso difficile da trovare anche in attori professionisti. Se l’abilità recitativa, per quanto a tratti necessariamente acerba, è indiscutibile, la sua interpretazione di una materia così complessa è aiutata anche dall’adattamento del testo (dal libro Et au pire, on se mariera di Sophie Bienvenu), capace di far trasparire una verità estremamente cruda in una climax mai forzata, senza cadute nel facile melodramma: il confine tra bene e male è nudo sulla scena, ridotto all’osso e per questo fragile e sfuggente, senza nessuno spazio per l’innocenza, fatta a pezzi – questa sì – dalla violenza di un finale ineludibile.
Elementi di pregio: la capacità del testo di portare lo spettatore a cercare di comprendere la sofferenza della protagonista proprio là dove lei non riesce a riconoscerla; la credibilissima recitazione di Marta Prunotto; la potenza e l’intensità che l’adattamento è in grado di restituire.
Limiti: la parlata della protagonista, mantenuta sempre coerente a se stessa, può risultare in alcuni punti un po’ monocorde.
adattamento e regia Elena Dragonetti
con Marta Prunotto
tratto dal romanzo Et au pire on se mariera di Sophie Bienvenu
traduzione Sonia Fenoglio e Anna Giaufret
assistente alla regia Beatrice Marchetti
scene Lorenza Gioberti
costumi Francesca Marsella
produzione Teatro della Tosse e Narramondo Teatro
con il sostegno del Conseil des arts du Canada / Canada Council for the Arts, dell'Ambasciata del Canada a Roma, dell'Università di Genova e del Dipartimento di Lingue e Culture Moderne.
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