Sulla carta, Solaris si presenta come un ambizioso progetto dell’esperto regista napoletano Andrea De Rosa, coadiuvato come sempre da suoi storici e preziosi collaboratori, dallo scenografo Simone Mannino al light designer Pasquale Mari, che per anni hanno contribuito significativamente alla composizione visiva di regie d’opera - e non solo - di questo elegante e apprezzato professionista della scena italiana.
Lo spunto, colto nel furore della pandemia, parte dalla lettura dell’enigmatico romanzo del polacco Stanislaw Lem, datato 1961, un’opera comunemente accostata al genere fantascientifico ma che, al pari forse solo di alcuni romanzi di Philip Dick, si presta maggiormente a farsi leggere come un autentico viaggio filosofico nella psiche umana.
I tre scienziati di cui la vicenda narra, prigionieri delle loro stesse ricerche, alle prese con dati, formule, nomi e ipotesi, sono in realtà sfondo disperato, fallimentare, a volte persino goffo, del vero protagonista silenzioso della storia: l’oceano di neutrini di cui è composto Solaris, oggetto delle vane ricerche dei tre scienziati, una vasta e misteriosa massa liquida intelligente, in grado di dar corpo a sogni e incubi della mente umana.
Le opportunità di un adattamento scenico sono offerte innanzitutto dall’unità di spazio che domina claustrofobicamente anche il romanzo da cui è tratto; è inoltre potenzialmente teatralissima la contrapposizione filosofica dei personaggi che si esprime sempre in accesa forma dialogica e che diventa subito materiale drammaturgico; allo stesso modo, infine, la scatola scenica concede la possibilità di una rappresentazione credibile degli incubi generati da Solaris sfruttando la forma concreta e insieme illusoria delle convenzioni teatrali - un manichino, una culla con la registrazione di un pianto di bambino…
A dire il vero, nella resa scenica, tuttavia, non si può certo parlare di uno spettacolo emozionante, tutto concentrato com’è nel suo tentativo piuttosto gelido di evocare l’interno di una stazione scientifica spaziale in abbandono - parallelo all’abbandono anche mentale di chi la abita - con suoni di fondo abissali e ticchettii di macchine futuribili ormai desuete, che fungono più da ricercate citazioni di genere che da dispositivi sonori in gradostruire un habitat organico e funzionale alla messinscena.
Inoltre, c’è qualche problema di equilibrio narrativo: la forza espressiva della vicenda della scienziata Kelvin/Federica Rosellini e del suo incubo Ray/Giulia Mazzarino, un’amante del suo passato morta tra le onde del mare forse per sfuggire alla delusione sentimentale della loro storia finita male, mette in una luce decisamente marginale le figure, invece molto interessanti, del dottor Snaut/Werner Waas e della dottoressa Sartorius/Anna Toffolatti, quasi strumentali alla composizione o decomposizione della storia d’amore tra Kelvin e il prodotto mentale dell’oceano di Solaris. Per la brava Toffolatti e un Waas depotenziato, infatti, non c’è modo di costruire, respirare, far vivere qualcosa che non sia accennato e approssimato. Le decisioni che prendono i due scienziati, sulla carta co-protagonisti, non si presentano mai come il frutto di una crescita di consapevolezza dei personaggi, ma come elementi esterni, contestuali alla vicenda, semplici fatti rispetto ai quali Kelvin, motore della storia, deve agire o reagire.
Nell’agone scenico di questa stazione spaziale, è possibile che Federica Rosellini percepisca chiaramente che la tenuta dello spettacolo si basa in gran parte sulle sue energie e variazioni nei settantacinque minuti di questo Solaris, e si mette generosamente a disposizione con una interessante capacità di far coesistere il distacco di una scienziata che coglie i limiti del proprio lavoro e l’alienazione, conseguenza di una visione sempre più lontana dall’umano e sempre più vicina al “divino”, rappresentato da Solaris e dalle sue forme così intime e angoscianti.
Giulia Mazzarino è una presenza forte, più resistente alle sfumature, pronta a rompere con violenza ciò che un attimo prima costruiva con dolcezza, portando il proprio personaggio all’interno di una condizione di disperata instabilità.
Chiusura di recensione dedicata a un personaggio, quello del Dottor Gibarian, vecchio maestro della dottoressa Kelvin, che si è suicidato poco prima dell’arrivo della sua allieva, forse per sfuggire alle metastasi del proprio corpo martoriato dal cancro. Gibarian, sensibile e geniale, ha sempre sognato una possibile comunicazione empatica tra gli umani e l’oceano intelligente di Solaris, pur senza riuscire a completare le sue ricerche: è interpretato da Umberto Orsini che compare in un video e dialoga idealmente con la Kelvin, ormai in aperto contatto con il mondo del non fisico.
Benché artificioso e forse a volte persino troppo scontato nel bianco irreale dell’aldilà psichico in cui l’anziano dottore è immerso, Orsini, classe 1934, è incarnazione e ologramma insieme di un grande, storico, consapevole attore in grado di evocare così quella “realtà virtuale” di cui Lem effettivamente è da tutti riconosciuto come visionario precursore.
Una buona idea, insomma, densa di significato, che però resta confinata in uno stato di progettazione, senza mai vivere, stravolgere, convincere.
Come del resto l’intero spettacolo: ben messo in scena, con mestiere e intelligenza, senza l’aspirazione all’immortalità.
Tutto qui. Se sia poco o molto sta al pubblico decidere.
Pregi: Rosellini e Mazzarino lavorano come personaggi di Cechov, organiche e complesse, credibili ed energiche; la messa in scena elegante, con scenografia e luci da opera lirica; il tentativo di adattamento, cogliendo le analogie tra la prigionia di questi tre scienziati e la situazione di forzata immobilità (anche della scienza) soprattutto nel primo lockdown.
Limiti: approssimazione drammaturgica nello sviluppo dei personaggi del Dottor Snaut e della Dottoressa Sartorius; inserti video del dottor Gibarian/Umberto Orsini sui quali si poteva osare un po’ di più sul piano visivo; la gestione del sonoro che vuole “creare” un’atmosfera in modo artificiale, attraverso la riproduzione di suoni non da stazione spaziale, ma “da film di fantascienza”.
Solaris
di David Greig
tratto dall’omonimo romanzo di Stanislaw Lem
traduzione di Monica Capuano
diretto da Andrea De Rosa
con Federica Rosellini, Giulia Mazzarino, Sandra Toffolatti, Werner Waas, Umberto Orsini (in video)
luci e fotografia Pasquale Mari
scene e costumi Simone Mannino
progetto sonoro G.U.P. Alcaro
video D-Wok
assistente alla scena Giuliana Di Gregorio
Cast tecnico
direttore di scena Fabrizio Montalto
macchinista Salvatore Arena
elettricista Gianni Grasso
operatore video Luca Nasciuti
fonici Edoardo Ambrosio, Giovanni Marinaro
sarta Irene Barillari
ufficio produzione Nadia Fauzia
Produzione Teatro Nazionale di Genova e Teatro di Napoli Teatro Nazionale
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