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Massimo Milella

Sui confini | Visioni intorno alla residenza di Prayer [for Quiet] di Michela Aiello



Premessa


Lo spazio intorno al corpo di chi danza non è omogeneo. Fuori dai limiti visibili determinati dalla scena e dalla scenografia, ci sono limiti invisibili, impercettibili in questo spazio teso attraverso il corpo di chi danza, che duplica lo spazio visibile. Esistono l’aria, un’aria corrente, la luce e l’ombra, il respiro e lo sguardo, le densità, le torsioni, le distanze e le profondità, e le sensazioni, e le memorie, e gli scambi, e tutto ciò che circola tra questi elementi. Il danzatore scava, sonda lo spazio e vi scopre i confini tra gli elementi che lo compongono. Egli traccia anche limiti sconosciuti e non smette mai di oltrepassarli. I limiti si trovano tanto tra il corpo e lo spazio quanto all'interno dello spazio e del corpo stesso. Non esiste danza senza trasposizione di questi limiti, senza lo spostamento di tutti questi confini, attraversando tutti gli elementi eterogenei. E questa danza, a volte, inaugura limiti o demarcazioni in modo quasi impercettibile, ma, poco a poco, li rende singolarmente sensibili. Vediamo limiti molteplici tra il percepibile e l'impercettibile. Scopriamo, dentro il nostro corpo, il danzatore che lavora il (agisce nel) nostro corpo.


A leggerlo bene, magari a voce alta, se nessuno vi sente e potete restare solo voi e le parole pronunciate, forse di questo testo vi potrebbe colpire, come ha colpito me, l’enumerazione, una figura (assai barocca, berniniana) di accumulo più che di riempimento (quindi di qualcosa che agisce verso l’esterno, come un rigonfiamento di uno spazio vuoto, più che di un’attrazione di tanti elementi verso un centro): “un’aria corrente, la luce e l’ombra, il respiro e lo sguardo…”. O forse la vostra attenzione, com’è capitato alla mia, si soffermerà su pensieri lapidari che hanno il pregio, un po’ miracoloso, di catturare l’evanescenza attraverso una prosa densa e magmatica. Così, l’immagine del danzatore che scava è concreta, faticosa, sofferta, eppure il risultato materiale della sua azione conduce a qualcosa di assai difficile da tenere tra le mani: un confine, anzi più confini

Questo è l’incipit di Esse pequeno nada entre os limites uno dei più bei capitoli del misterioso A Gênese de um corpo desconhecido, raccolta di saggi dello studioso giapponese Kuniichi Uno, che ho potuto leggere nella traduzione in portoghese che Christine Greiner (con Ernesto Filho e Fernanda Raquel) ha redatto nel 2012, grazie alla lungimiranza editoriale della brasiliana N-1 Edições di São Paulo. In questo capitolo, Uno si riferisce a, o meglio si fa ispirare da, Tanaka Min, danzatore Butô, intorno al quale costruisce un’analisi che sembra sfuggire il più possibile dal compito servizievole di aderire alla sua pratica specifica, preferendone seguire piuttosto le tracce, la dispersione, l’eredità. Ed è per questo che la prosa di Uno enumera figure, immagini, suggestioni, danze della parola che sembrano condurre in indefiniti e molteplici altrove e che, invece, sempre, concretamente, svaporando, quasi in sottrazione, finiscono per svelare la pratica del Maestro, come riflesso sfuggente di un corpo che, comunque lo si voglia immaginare, in carne ed ossa, in forma cinematografica o fotografica, finanche descritto a parole, sulla carta, resta comunque vivo solo nella danza. Questo è il destino di chi danza, non si smette mai di percepirlo/la danzare. Obiettivo di Tanaka Min – che è irradiante enumerazione a sua volta di altre molteplici ombre di chi danza Butô, ma anche sfida filosofica per altre pratiche danzate e non – è scoprire confini, tracciarne di nuovi, oltrepassarli e, per farlo, certo non ci si può basare su ciò che "esiste già” ma su ciò che esiste “intorno”, “intra” e “infra” e anche, se necessario, su ciò che esiste nonostante, in tributo all’ostinazione ribelle che la danza Butô porta dentro e fuori di sé. Ciò che esiste tra i confini, per quanto piccolo, per quanto nada


In partenza

Quando Michela Aiello, artista, marionettista, formatrice e performer, mi ha chiesto di raggiungerla a Polistena (Reggio Calabria) per fare da critico/tutor al suo Prayer [for Quiet], vincitore dell’edizione 2024 del Progetto CURA, non ci sentivamo al telefono da oltre quindici anni. Un’amicizia interrotta da scelte di vita parallele e distanti, soprattutto geograficamente, ma non poi così inconciliabili, se, dopo tanto tempo, ci siamo trovati a parlare al telefono, anziché di come stiamo, di questo libro di Kuniichi Uno che, a distanza, aveva colpito entrambi profondamente. Io lo avevo scoperto durante eterogenei e assetati studi di performance per la mia tesi di dottorato e lei, invece, da tempo era sulla via del Butô, nella quale aveva ormai consolidato una pratica, una conoscenza, una radice e al tempo stesso, appunto, uno sconfinamento. E forse già parlare di questo libro, del suo magma e della sua evanescenza, era una risposta alla domanda come stai. 

Sia pure per pochi giorni, ho partecipato alla residenza di Prayer e tenevo a fornire un resoconto di ciò che questi giorni sono stati, non solo per onorare il lavoro svolto, ma anche per cercare di condividere una fotografia del progetto, parziale e soggettiva, nella mia doppia accezione di critico-tutor, ovvero di osservatore dei processi e al contempo (quel trattino in mezzo è, probabilmente, un “al contempo”) operatore che si prende cura degli stessi, affiancandoli. Non è un ruolo inedito, se inteso così: per me la critica agisce per affiancamento, azione di vicinanza, di condivisione, sia pure temporale e fragile, di una direzione, nell’autonomia del proprio passo.


Dato che non si può parlare di una pianta senza nemmeno verificare il terreno che la ospita, è doveroso fare un po’ di presentazioni, che certamente chi legge potrebbe trovare, in modo più diffuso e approfondito, nei siti delle entità a cui faccio riferimento. Il Progetto CURA, per iniziare, è una rete di sedici realtà teatrali, disseminate lungo lo stivale (scorrendo la lista dei teatri coinvolti, ne individuo tre nel Sud, cinque nel Centro, otto al Nord) di cui IDRA Teatro di Brescia è capofila. Giunto alla sua nona edizione – quando iniziò la sua avventura, le realtà erano sei – dichiara di porsi due obiettivi che sintetizzo così: da un lato, l’artista o la compagnia deve essere in grado di sviluppare il proprio progetto in condizioni tecniche professionali e secondo una tempistica che sostenga la creatività, dall’altro è considerato fondamentale il momento dell’incontro con l’ecosistema del teatro, altri occhi, altre pratiche, di chi lo fa, di chi lo critica, di chi lo guarda. Prayer [for Quiet] di Michela Aiello è tra i dieci progetti selezionati e la residenza svolta presso il Centro DRACMA di Polistena (RC) costituisce il secondo degli “attraversamenti” (è così che sono definiti), dopo quello a cura del CSS Teatro Stabile di Innovazione Friuli Venezia Giulia per Dialoghi_Residenze delle arti performative a Villa Manin (Passariano di Codroipo).

DRACMA, invece, è una Compagnia Teatrale e Centro Sperimentale di Arti Sceniche, diretto da Andrea Naso. Nasce come Associazione culturale nel vibonese nel 2005, ma dal 2013 si trasferisce nel piccolo ma vivace Comune di Polistena, un centro fondamentale per la sua ubicazione geografica, collocato nella più accessibile via di comunicazione tra le due opposte sponde calabresi, pressoché equidistante dai due mari. Qui, Dracma viene riconosciuto prima Residenza Teatrale regionale e poi, nel 2015, anche nazionale, diventando organismo di programmazione teatrale nel 2022, dopo essere entrato oltre che nel circuito di Cura, anche in NDN - Network Drammaturgia Nuova e In-box. Non è un mistero per nessuno, ripeterlo è una banalità, ma le banalità sono necessarie, a volte: fare teatro al Sud è più difficile che farlo al Centro e – e il divario naturalmente aumenta – al Nord. Il lavoro di Andrea Naso e della sua squadra (cito Mariella Iannello, instancabile curatrice della parte amministrativa) mi è parso sin da subito fondamentale. Ma, affinché questa presentazione non sfoci nell’alimentazione deleteria di un cliché e non sposti l’attenzione dall’esigenza di riflessioni e risposte urgenti (eppure non prioritarie, nell’agenda della politica culturale, a quel che mi sembra), va subito chiarito che Dracma e la sua Polistena richiedono non un’informazione generica, ma una concreta conoscenza, una scoperta in prima persona di quello che questo gruppo riesce e non riesce a fare in un territorio che ha sete e fame di teatro. E quando parlo di sete o fame, non mi riferisco solo al pubblico, che cresce intorno a questo progetto, ma anche a giovani ed eccellenti professionisti che hanno la possibilità, così, di scegliere di restare in Calabria (o addirittura di tornare dalle sempre meno sostenibili città del Nord dove hanno condotto parte della loro formazione) apposta perché c’è una realtà teatrale seria e funzionante – non è l’unica, per fortuna, ma quante ve ne sono? – in cui mettersi alla prova e fare quello che si ama, senza dover emigrare. Il tema mi sta a cuore, essendo andato via io stesso da una città del Sud, quasi dieci volte più grande di Polistena, in cui però credevo, a diciannove anni, che non avrei mai potuto studiare teatro. 


In residenza


Ecco un’immagine che ho deliberatamente catturato da un video che l’artista mi aveva mandato per rendermi parte del processo creativo alla base di Prayer [for Quiet]: siamo nella baixa di Lisbona, probabilmente in Praça Dom Pedro IV, in una di quelle giornate di sole con il cielo pieno di azzurro e di speranze che, così aperto e luminoso, ha pochi altri eguali in Europa. Nell’immagine, l’inquadratura mostra due figure tutte spostate sulla destra, la metà sinistra invece è occupata da un ritaglio della piazza. Il cielo non si vede in realtà, ma si intuisce che è una giornata senza nuvole, perché una delle due figure ha il volto completamente e perfettamente in ombra, non solo perché coperto dai capelli, ma perché inclinato in direzione della figura che la affianca, questa invece del tutto illuminata, vestita di bianco, bianco anche il viso, gli occhi che non guardano in macchina, riflesso di pensieri defilati, leggermente altrove. 

È a Lisbona, nel 2016, durante un laboratorio nell’ambito del Projecto Funicular (del Centro de Artes da Marioneta), che nasce K., la figura in piena luce vestita di bianco, una marionetta di taglia umana che si ispira al danzatore butô Kazuo Ono. In merito alla genesi specifica del progetto, e a tutto il percorso che otto anni dopo porta Aiello e K. alla costruzione di Prayer [for Quiet], non aggiungo nulla in questo testo: il dossier dello spettacolo ne articola accuratamente i passaggi. A me preme condividere invece questa immagine, che mi rimandò da prima ancora di vedere dal vivo il progetto, una sensazione di cura profonda e una manifestazione di una presenza/assenza fortissima: la marionettista in intima vicinanza alla creatura bianca, dietro di lei, nei primi passi di una nascita, con il viso completamente immerso nella sua luce – assorbito da essa, si potrebbe dire – e le spalle, le spalle che supportano, che sorreggono, sono invece esposte al sole, come in un abbraccio. Ma c’è anche il dato dell’aria corrente, del fuori, della relazione della marionetta con il mondo (nel video, si sente una voce maschile, che, non si sa se riferendosi a K. o meno, dice “assusta-me”, mi spaventa, mi terrorizza), che si restituisce allo sguardo altro. Intuisco ciò che per studiose e studiosi di forme animate – quale io non sono – in genere è forse nozione appena basilare, quasi banale: è allo sguardo altro, ancorché allo sguardo di un altro, che una marionetta si offre. K. nasce nel sole e così, nel chiaroscuro della luce e dell’ombra, nasce anche la relazione tra K. e la sua marionettista. La loro specifica relazione – al di là di quanto il rapporto marionetta/marionettista sia sempre fondamentale – è il punto centrale di Prayer [for Quiet], né un punto debole né un punto di forza, è semplicemente quello di non ritorno, l’inevitabile di quando qualcosa o qualcuno nasce e viene al mondo.


Quando entro nel Teatro-Auditorium Comunale di Polistena (ben attrezzato con una capienza di pubblico di poco meno di 300 posti) per la prima delle giornate di lavoro, i meccanismi della scenografia sono stati già realizzati dall’ingegno del tecnico Marco Pirola, nell’ambito di una residenza “a staffetta” come la definisce la stessa Aiello, che prevede la marionettista e K. perni, naturalmente, sempre presenti, intorno ai quali ruotano, a seconda delle disponibilità e delle fasi di lavoro, diverse professionalità, ora nell’atto di integrarsi nel vivo della creazione (è il caso, per esempio, del disegno luci di Raffaella Vitello e dell’universo sonoro di Jacopo Ruben Dell’Abate), ora nel prezioso lavoro di fornire uno sguardo esterno (quello nella fattispecie di Fabiana Iacozzilli, che nel suo La Classe aveva lavorato con lei).

Nei giorni in cui mi trovo a Polistena, è presente anche Alice Giroldini, che ha una carriera importante come attrice (per Mauri e Sturno, Maccieri, Livermore e altri), ma che qui si connette all’avventura di Prayer, grazie alla virtù rara, ancora una volta, dello sconfinamento – leggo in una recente intervista sul sito Artribune il poeta Filippo Balestra dire che ciò che è vivo finisce sempre per sconfinare – verso il teatro di figura. Sarà assistente preziosa, decisiva, non solo rispetto ai rinforzi e agli stimoli nel merito tecnico della performance, ma anche alla dinamica profonda dei dettagli, quelli invisibili, che muovono la fragilità di una creazione ancora in prova e in ricerca.

Dalla mattina alla sera, alternate alle cosiddette filate, estenuanti e necessarie per Aiello e K. si sono sezionate e ripetute micro-azioni esplorate fino al dettaglio. Gesti e attimi che vanno da episodi più “laici”, diciamo, legati inevitabilmente a ciò che può funzionare, rispetto alla relazione con questo o quell’oggetto, nella triangolazione con lo spettatore, ad altri molto più enigmatici o “spirituali”, e davvero non meglio definibili di così, in cui ci si chiedeva, per esempio, in che modo una piuma avesse il peso e la leggerezza di animare una danza (“ma è dal vento che nasce la danza”, recita un appunto anonimo sul mio quaderno, proveniente presumibilmente da da K. stesso). Non in che modo, ma attraverso quale qualità, quale temperatura. Non cosa succede, ma da dove viene? Potete ben immaginare che si parlava di fantasmi.

Ben presto mi rendo conto che il vocabolario del lavoro di K., Michela Aiello ed Alice Giroldini accoglie di buon grado possibili esplorazioni dell’invisibile e porto con me poesie di Ghiorgos Seferis, di Paul Valéry, di Vittorio Sereni, e testi diversi, Roland Barthes o Italo Calvino. Interagiamo tra una prova e l’altra, nutrendo la scena con ciò che non si vede e non si vedrà di questo spettacolo, con una “riattivazione” – nel lessico della dramaturgie di Claudio Meldolesi e Renata Molinari – di elementi che non possono considerarsi precisamente dei nessi, né intenzioni, né desideri della performer umana Aiello e del performer non-umano K., ma piuttosto elementi analoghi a tracce di animali che sono passati di qui e che, lontani dal fuoco, ancora ci osservano. Oppure abitazioni di un villaggio che non dorme mai, popolato da anime avvolte nella totale oscurità. Bisogna tornare al danzatore Butô Hijikata in Kinjiki – opera del 1959 ispirata a Mishima – e a quello che dice di lui Kuniichi Uno: 


"Solo il bel ragazzo Yoshito Ono è visibile sotto la luce. Guarda le proprie mani, fissa le mani violate in un’atmosfera omosessuale. Hijikata in scena non abbandona mai l’ombra. Non fa altro che osservare i movimenti del ragazzo". Si sa bene che Hijikata non rimase immobile per tutto il tempo durante la danza. Ma, fin dall'inizio, la danza di Hijikata mise in discussione il movimento stesso della danza. Metteva in questione tutto contemporaneamente: la vita, la società, lo spirito, il corpo, la sessualità e anche la danza, ma, nonostante tutto, aveva bisogno di una danza per porre le sue domande.

(Uno, 2012, 45)


Oppure si può pensare a quella immagine catturata in un video girato a Lisbona, che ho provato a descrivere qualche pagina fa, della marionettista creatrice dal volto in ombra, della marionetta creatura in piena luce, sfuggente, che emette fuori di sé il proprio insospettabile universo (anche sonoro):


Un grande amico che sorga alto su di me

e tutto porti me nella sua luce,

che largo rida ove io sorrida appena

e forte ami ove io accenni a invaghirmi…

[…] 

(Vittorio Sereni, Il grande amico – estratto)


Allo stato conclusivo dei tre giorni resto con alcune curiosità ancora aperte circa momenti decisivi dello spettacolo. Intendo che tuttora non so in che modo, nel prosieguo della residenza, Michela Aiello e K. e le persone che con lei hanno collaborato, dopo che io e, successivamente, Alice Giroldini abbiamo lasciato Polistena, abbiano scelto di mettere in scena alcuni di quei micro-dettagli a cui facevo riferimento. Non li riferisco, perché con ogni probabilità resterebbero qui sulla pagina intrappolati e fraintesi, ancor più che sospesi. Ma certamente può essere utile dire che hanno a che fare con la voce, ovvero una parola o una frase sussurrata nell’orecchio di K., qualcosa che fino all’ultimo istante in cui sono rimasto nel Teatro mi è parso carico di una tensione fortissima, tra attrazione e terrore. Ha a che fare con la questione del segreto, ovvero con quanto si debba avere cura di esso, quanto debba essere riconosciuta pienamente anzitutto la sua natura stessa di confine (e torniamo ancora una volta a Kuniichi Uno). 

C’è ancora una cosa, a proposito di questo confine/segreto, che intendo raccontare e lo farò volutamente in modo scarno, per non far trapelare troppi dettagli: c’è una scena, cui la performer ha voluto sperimentare alcune scelte, alcune possibilità molto forti che arrivassero a compiere un’azione piuttosto radicale nella sua relazione con K. Siamo rimasti a lungo a immaginare, insieme, che cosa stesse accadendo (o da dove stesse venendo tutto questo) finché la stessa Michela interrompe ogni tentativo in questa direzione, dicendo semplicemente: “K. non vuole”. Ovvero, è dall’interno che si genera una scelta ed è all’interno che alcune di queste scelte devono rimanere. 

Penso al film di Werner Herzog, The White Diamond (2004), girato nella foresta pluviale della Guyana e, in particolare, a una scena in cui uno degli operatori, particolarmente coraggioso, decide di scoprire il mistero degli uccelli che popolano una grotta protetta dalla forza impetuosa delle cascate Kaieteur. Questi uccelli scompaiono nell’oscurità dell’enorme antro, senza che mai nessuno, stando a quanto raccontano gli abitanti del luogo, vi abbia mai fatto accesso. L’operatore di ripresa, imbracato adeguatamente, si cala giù dal pendio, fin dentro la grotta. Ma, pur avendone le possibilità tecniche, decide di non riprendere ciò che vede, perché il mistero, che per le popolazioni della cascata è sacro, lo diventi anche per chi guarda il film, a chilometri e anni di distanza. Ecco il punto, K. non vuole, è una questione di confini, appunto, di grotte, di tutelare il segreto: l’être qui s’émerveille est beau comme une fleur, dice Paul Valéry in Dialogue de l’arbre


Di ritorno

Nella mia opinione, il passaggio da critico/tutor del progetto a partecipante attivo del processo creativo collettivo (sin dal primo giorno il lavoro svolto è andato nella direzione del dramaturg), in una residenza talmente coinvolgente, non può forse essere considerato né una confusione degli elementi professionali richiesti, né un cambiamento repentino e incoerente di stato o di condizione. Uno sconfinamento sì, naturale però, non forzato, perché questa è l’atmosfera di un progetto che nel far confluire il mondo della marionetta a quello della danza Butô finisce per far nascere una cosa dall’altra e viceversa, senza cesure. Giunto al termine delle due residenze, Prayer [for Quiet] porta con sé la forza e la fragilità di una creatura che nasce nel sole (e nella pioggia e nel caldo e nel freddo delle marionette che abitano il mondo, fuori) ma è invece progettato per il dentro, un interno profondo, scavato, ma anche allo stesso tempo l’interno dello spazio teatrale, con i suoi meccanismi artificiali, le carrucole, i suoni, gli effetti della luce e soprattutto dell’ombra: K. è pronto alle metamorfosi della scena.

La chiusura è su un appunto che ho ritrovato sul mio quaderno, questa volta sicuramente buttato giù da me e solo per me – quindi per questo testo, un giorno – da critico, osservatore esterno, forse poco prima di salutare e prendere un treno per l’aeroporto, per iniziare a creare uno spazio di distanza e di riflessione tra il processo creativo con i suoi segni e la sua fenomenologia e il contatto con K. e Michela, il percorso ancora imprevedibile della loro relazione che nascerà, di nuovo, al debutto:


"Michela sgombera il palcoscenico, prende il quaderno rosso, resta immobile a metà di un movimento dinamico, un po’ sospesa. Poi, dopo aver letto, sospira e chiude il quaderno, o forse lo chiude proprio sospirando, o sospira chiudendolo, in un unico gesto. In questo unico gesto, la scena è pronta”. 


E poco più in basso, nella pagina, un dubbio a cui spero di dare presto una risposta: “Qual è il vostro ultimo sguardo?”.

Domanda aperta, sconfinata.







Prayer [for Quiet]


Ideazione e Interpretazione Michela Aiello

Creazione sonora e Foto di scena Jacopo Ruben Dell'Abate

Collaborazione artistica per la parte di teatro d'ombre Fabrizio Montecchi

Sguardo esterno, Consulenza artistica Fabiana Iacozzilli

Creazione luci Raffaella Vitiello

Creazione della marionetta e dei costumi Michela Aiello


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