Entriamo in una stanza disadorna del Centro Giovani di Albenga, spazio polifunzionale vicino alla stazione utilizzato, tra le altre cose, come centro antiviolenza. Elena Cotugno ci aspetta seduta a un tavolo con alcune sedie disposte a semicerchio tutto intorno. Indossa una lunga parrucca nera e una tuta sotto cui si intravedono delle calze a rete larga; un trucco marcato le segna gli occhi; è impegnata a girare una sigaretta, ostentando una scarsa perizia. «Tu fumi?» chiede insistentemente con marcato accento esteuropeo fino a che non trova uno spettatore capace di confezionargliene una.
Fin da subito, Medea per strada, spettacolo prodotto da Teatro dei Borgia e inserito all’interno della trilogia La città dei miti, si pone sul piano comunicativo diretto e incalzante proprio della conversazione o, più precisamente, della confessione. Cotugno racconta una storia che parte dalla Romania oscurantista e violenta di Nicolae Ceauşescu e prosegue con la fuga verso il miraggio del benessere italiano, l’inganno, la violenza, l’induzione forzata alla prostituzione, ma anche l’amore, la maternità, la speranza di un matrimonio. La storia, le parole, gli atteggiamenti della protagonista riflettono i mesi di volontariato condotti da Cotugno a fianco di assistenti sociali e operatori di strada per dare conforto a diverse sex worker e raccoglierne le testimonianze.
Riconosciamo la Medea mitica nell’esasperata estraneità dei suoi caratteri – la risata penetrante, gli occhi ferini, la malinconia rabbiosa – e nella reazione omicida al tradimento di Giasone, che è amante, sfruttatore e padre dei suoi due figli. L’elemento tragico non si innesta nella narrazione in modo improvviso e posticcio, ma emerge gradualmente grazie a una sapiente alternanza di vicende scabrose, toni colloquiali, interazioni con il pubblico capaci di aumentare la temperatura emotiva all’interno della stanza e di far traballare il diaframma che divide spettatori e attrice.
«Chi siete? Che volete?», ci chiede Cotugno con voce ferma, dopo essersi tolta la parrucca per evocare l’uccisione della propria rivale in amore. Il respiro politico dello spettacolo, allora, ci travolge apertamente e spazza via l’ultima barriera tra noi e l’interprete, chiamandoci al confronto con le storie vive di cui lo spettacolo si è nutrito nelle sue fasi iniziali. Senza aspettare balbettanti repliche, Medea si alza e attraversa la porta da cui eravamo entrati un’ora prima, abbandonandoci ai nostri fiati corti e cuori in palpitazione.
L’Ortofrutticola, azienda agricola che vede avvicendarsi nei suoi spazi gli spettacoli serali di Terreni Creativi, ospita Vocazione all’asimmetria di Francesca Foscarini, presente per la seconda edizione consecutiva all’interno del festival savonese. Stando alle note di regia, il lavoro poggia sull’elaborazione filosofica di Emmanuel Lèvinas a proposito dell’inevitabilità dell’incontro con l’Altro, chiamata “asimmetria”, per la formazione di un’identità propria e per la calibrazione di una misura del mondo. Su una pedana bianca rettangolare con le sedute poste lungo i due lati lunghi, Foscarini si fa accompagnare da Andrea Costanzo Martini in una partitura fatta di gesti frantumati, eseguiti e poi abbandonati. È quest’ultimo a inaugurare la danza con movimenti scattosi ed energici, per poi lasciare il posto alla coreografa, che ne abbassa e arrotonda l’intensità. «Dark» e «Light» sono le parole d’ordine che i due performer pronunciano a indirizzo del pubblico per segnare l’alternanza tra loro: chiudiamo gli occhi e li apriamo a seconda del comando impartitoci. Con l’avanzare della performance, queste parole si susseguono tanto vorticosamente da consumare il proprio valore originario, e i corpi dei due danzatori entrano sempre più spesso in relazione, eseguendo gli stessi passi prima di separarsi in singoli assoli o abbandonarsi l’una nelle braccia dell’altro.
Ritornando a leggere il foglio di sala, è difficile stabilire quale apporto estetico ed etico abbiano avuto i testi di Lèvinas sull’impianto di Vocazione all’asimmetria, a meno di non considerare quella di Foscarini un’indagine sul fondamentale contratto effettuato da corpi diversi per condividere uno stesso spazio scenico. Nonostante la sua ampiezza e genericità, questa ipotesi interpretativa trascura ugualmente alcuni elementi centrali e ricorrenti dello spettacolo, come la produzione di suoni minimi o assordanti attraverso il microfono e la loop station. Così, senza un filo ermeneutico a cui aggrapparci, lo stupore occasionale di alcuni momenti suggestivi, come l’improvvisa immersione della sala in un buio rumoroso e infernale, è tutto quello che riusciamo a ottenere da uno spettacolo incapace di districarsi all’interno del suo ingombrante riferimento.
All’interno di uno dei magazzini dell’azienda, in mezzo a imponenti pile di bancali, viene allestito L’ammazzatore di Giuseppe Cutino, tratto dall’omonimo romanzo di Rosario Palazzolo. Sul foglio di sala si mettono le mani avanti e ci viene assicurato con tono deciso che questa «non è una storia di mafia», bensì «una storia minuscola di un uomo minuscolo capace di pensieri minuscoli, un uomo che si fa emblema dell’umanità tutta». Inizia lo spettacolo e quello che fin da subito sentiamo raccontare, in realtà, ha tutti gli elementi della storia di mafia: la vita priva di prospettive al quartiere popolare Brancaccio di Palermo; il lavoro presso un mafioso locale come ammazzatore, e non assassino (tra cui intercorre la stessa differenza che c’è tra un cuoco di mensa scolastica e uno chef stellato); l’innamoramento nei confronti di Katia, che avrebbe dovuto essere una sua vittima; il tentativo di fuga romantica; l’eccidio famigliare e l’inevitabile morte.
I due attori che danno voce al protagonista Ernesto Scossa (lo stesso Rosario Palazzolo e Salvatore Nocera) narrano in prima persona gli avvenimenti, rispettando il dettato del romanzo, e si alternano animando efficacemente le altre maschere del racconto (il minaccioso “Secco”, il sibilante “Ziu”) in dialoghi brevi e sapidi. Lo spettacolo, tuttavia, perde vigore nei momenti in cui i protagonisti da narratori passano a raisonneur e concionano a proposito di ariosi argomenti filosofici, come la formazione dei pensieri nell’essere umano o la natura dell’amore. Qui gli accenti isolani, frizzanti nei momenti d’azione, si trasformano in una pedante cantilena, sostenuta da un tappeto sonoro che punta sul patetismo e si fa gonfio, sviolinante: un tentativo di innalzare uno spettacolo che, volendo – anche giustamente – evadere dalla gabbia civile e moralista in cui la narrazione sulla mafia spesso si rinchiude, rifiuta la sua natura piccola e punta a farsi grande, universale, ciclopico, rivelando, però, fondamenta di argilla.
Nota a margine: Per problemi organizzativi non siamo riusciti ad assistere alla replica de La fabbrica degli stronzi di Kronoteatro e Maniaci d’Amore. Fortunatamente lo avevamo già intercettato mentre era in scena nella sala Mercato del Teatro Nazionale di Genova. Qui l’intervista che le due compagnie ci avevano concesso a ridosso dello spettacolo, nell’aprile di quest’anno.
Visti a Terreni Creativi Festival, il 3 agosto 2022.
Medea per strada
da Euripide
con Elena Cotugno
parole di Fabrizio Sinisi e Elena Cotugno
ideazione e regia Gianpiero Alighiero Borgia
prodotto da Teatro dei Borgia
in coproduzione con CTB - Centro Teatrale Bresciano e Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia
Vocazione all’asimmetria
progetto e coreografia Francesca Foscarini
creato e interpretato da Francesca Foscarini e Andrea Costanzo Martini
disegno luci Luca Serafini
cura della tecnica Maria Virzì
musiche originali Andrea Cera
accompagnamento alla ricerca Chiara Bortoli
produzione VAN
in coproduzione con 3 Bis F Lieu d’Arts Contemporains Aix En Provance (FR), Centro per la Scena Contemporanea di Bassano del Grappa (IT), Fondazione Fabbrica Europa per le arti contemporanee (IT), La Briqueterie (FR), Les Brigittines (BE), MASDANZA The International Contemporary Dance Festival of the Canary Islands & Sala Insular de Teatro-Cabildo de Gran Canaria (ES), Uovo e Next Laboratorio per la produzione e la distribuzione dello spettacolo dal vivo lombardo – Edizione 2015 (I), Tanzhaus Zürich (CH), TripSpace Projects London (UK)
con il sostegno di Istituto Italiano di Cultura Madrid (ES), Istituto Italiano di Cultura di Londra (UK), Yasmeen Godder Studio Jaffa Tel-Aviv (IL), MiBACT - Ministero per i Beni e le Attività Culturali
L’ammazzatore
di Rosario Palazzolo
regia Giuseppe Cutino
con Salvatore Nocera e Rosario Palazzolo
scena e costumi Daniela Cernigliaro
disegno luci Petra Trombini
aiuto regia Simona Sciarabba
una produzione AMA Factory
in collaborazione con Teatrino Controverso, T22 e M’Arte Movimenti d’Arte
Foto di Krono Teatro
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