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  • Massimo Milella

Terreni Creativi | Frammenti da un festival angelico

Il direttore organizzativo, nonché coordinatore del progetto artistico, è al centro dell’immagine, vestito di bianco, ha un’aureola e un paio d’ali, il capo reclinato da un lato, un sorriso indulgente e lo sguardo verso l’obiettivo, a metà strada tra il compiacimento della propria condizione angelica e lo sguardo beffardo di chi, alla fine, nonostante tutto, l’abbia spuntata ancora. Ai suoi lati, un po’ più in basso, con identico costume soprannaturale, il direttore tecnico, logistico e amministrativo e l’altro direttore organizzativo, nonché curatore delle relazioni esterne. Sono rispettivamente Maurizio Sguotti, Alex Nesti e Tommaso Bianco, ovvero Kronoteatro, immortalati sulla copertina della programmazione di Terreni Creativi, il loro ormai storico Festival, nell’immediato entroterra di Albenga, nel ponente ligure. Non mi viene in mente un altro evento di questo genere, in cui chi tira le fila dell’avventura organizzativa  effettivamente ha il coraggio di metterci tutti gli anni la faccia e il corpo per presentare, anche a livello di immagine promozionale, il proprio festival, sintetizzando, in un fotogramma, il battito pulsante della propria condizione del momento: una metamorfica presenza, tra l’autoironico e il beffardo, tra la parodia e, per così dire, il tagliente attacco al reale di Cindy Sherman. 


Locandina di Terreni Creativi 2024

Terreni Creativi non solo è riuscita a mantenersi in vita, ma quest’anno, giunto alla quindicesima edizione, ha decisamente rilanciato il proprio progetto, proponendo innanzitutto un ampliamento dell’offerta, con una programmazione dedicata alle Nuove Generazioni, che precedeva il festival, tra giugno e luglio e poi, a inizio settembre, una due-giorni di incontri con studiosi, artisti, ricercatori sul tema del paesaggio (con spettacolo a cura di Camminanti del Silenzio). Ma l’elemento particolarmente interessante per me è che il Festival di Terreni Creativi è affidato a una direzione artistica condivisa, plurale, che esprime quanto di più progredito si veda, almeno in Liguria, da molti anni. A Francesca Sarteanesi, storica anima degli Omini, da qualche anno su un percorso personale molto ricco di drammaturga, attrice e performer, spetta il compito di tracciare un percorso più specificamente legato al teatro; a Francesca Foscarini, coreografa e performer, presenza ricorrente da queste parti e alla quale Terreni Creativi aveva già dedicato una personale nel 2022,  quello di tessere le fila di una proposta di danza contemporanea; ad Angela Giorgi, giornalista, ricercatrice, dj e responsabile della comunicazione di Jazz:Re:found, storica piattaforma di festival ed eventi musicali, sono affidate le chiavi dell’eterogenea ospitalità per i dj set che chiudono le serate: il tutto è coordinato da Maurizio Sguotti, infine, chiamato al compito di costruire una dialettica che tenga insieme le idee e ne crei il necessario ecosistema all’interno dell’enorme spazio del Consorzio dell’Ortofrutticola, in un luogo dunque non normalmente deputato al teatro, com’è tradizione di Terreni Creativi. Ne viene fuori non una frammentaria dispersione di scelte, ma, al contrario, una mappa coerente, solida, con proposte che alternano  vincitori e segnalati del Premio Scenario a Maestri della scena, da Danio Manfredini a Scimone/Sframeli, fino al necessario saluto (commosso e commovente) all’assenza – che si fa una presenza fortissima – di Enzo Moscato, che chiude, significativamente, l’anima teatrale del Festival. 

La traiettoria di Kronoteatro, nell’ambito dell’evoluzione di questa loro creatura, sempre più aperta e multiforme, eppure dall’identità chiara, sembra volersi indirizzare verso pubblici diversi, al di lá dell’allegra e irrinunciabile episodicità festivaliera, nel tentativo ambizioso di uscire dalla precarietà, insomma, per prendersi una responsabilità ancora più grande e più impegnativa all’interno del territorio in cui si opera, quella della continuità. 

Qui di seguito, offro i miei spunti di visione su ciò che è accaduto gli ultimi due giorni del Festival vero e proprio (rispetto ai 4 complessivi): Mondo di Gennaro Lauro, Tre Voci di Tilia AuserIl Cortile di Scimone/Sframeli (il programma di sabato 3 agosto); Luisa di Valentina Del Mas, e Ritornanti della Compagnia Enzo Moscato (domenica 4 agosto).


SABATO 3 AGOSTO


Mondo di Gennaro Lauro: l’assedio dei fantasmi


Selezionato per la Vetrina Giovane Danza d’autore nel 2020, inserito nella selezione di progetti emergenti di danza di Aerowaves nel 2021, Mondo è la seconda creazione nella biografia del danzatore e performer Gennaro Lauro, artista associato di Sosta Palmizi, che co-produce il progetto, insieme alla compagnia francese meta, di cui Lauro fa parte –  con un supporto importante di Abbondanza-Bertoni (attraverso il progetto di residenze Komm Tanz) e FabbricAltra di Schio.


Ambizioso e seducente: sono questi i poli intorno ai quali si appoggiano la percezione e la fruizione di questo suo Mondo, spettacolo difficile da contemplare, ancor più da testimoniare. Una chiave di approccio iniziale potrebbe essere il rapporto tra la sua danza e la musica scelta, che sottende la creazione. Si tratta di quattro brani musicali, alcuni dei quali particolarmente lunghi, riprodotti per lo più integralmente, molto eterogenei per genere, ma con in comune una sorta di rumore di fondo, una cifra sonora disturbante e ostinata. Non ho riconosciuto i pezzi, ma posso restituire la sensazione di lenta espansione che contribuivano a costruire – è, quella dell’espansione, la legge silenziosa dell’universo. La dinamica che Lauro propone è sfuggente, dispersiva se la si segue nel suo cambiare incessante, ma, se solo si riuscisse a cristallizzare le trasformazioni in una serie di immobilità, ognuno dei fotogrammi ideali che il suo corpo produce durante il tempo dello spettacolo (indeterminato, sulla scheda tecnica risultano 35 minuti, nella mia percezione, il tempo si è letteralmente sospeso) assumerebbe la potenza di un dipinto, di molti dipinti, in cui la figurazione di un corpo umano – o meglio di molti corpi umani – lo coglie nel punto di congiunzione tra equilibrio e disequilibrio. Ognuno di questi micro-movimenti compone una partitura complessa, perché capace di restituire un’idea di instabilità e di solidità, di iper-espressività e di totale assenza. 


Gennaro Lauro in "Mondo"
Foto di Luca Del Pia

Una delle caratteristiche più interessanti di Mondo, a mio avviso, è che il viso di Lauro va inteso come superficie epidermica in cui avvengono continue metamorfosi: grazie a un uso delle luci che sembra voler evidenziare un desiderio plastico di ampliare, nascondere, scolpire, il suo volto – gli occhi spalancati e poi ridotti a fessura, le guance scavate dall’articolazione in quasi incessante movimento della bocca, dell’espressione – non è mai uguale a se stesso, si lascia dimenticare ad ogni istante e il dialogo con l’ombra finisce per valorizzare la presenza sfuggente del corpo esile e ampio di Lauro, per restare sulla soglia minacciosa della sua dentatura, che lui stesso percuote con il proprio dito, come si trattasse di una macchina o, ancor meglio, di una creatura misteriosa alle prese con il tentativo di comunicarci qualcosa attraverso un linguaggio dimenticato o forse mai conosciuto. Mondo non è simulazione di un mondo, ma è letteralmente – corporalmente, cioè – esso stesso il mondo che incarna: intriso di memoria, di quella memoria che si impossessa del corpo vuoto del performer e lo possiede fino al suo esaurimento, finisce per essere, più che evocare, la situazione, l’episodio, il momento, il luogo che lo attraversa, secondo un processo creativo e fisico che mi ha ricordato alcune delle lezioni più potenti di Tetsumi Hijikata. Ho pensato subito allo storico butoh-ka giapponese, forse  perché, davvero, davanti alla creazione di Gennaro Lauro, ho percepito che la carne di questo mondo fosse davvero di troppo e il suo obiettivo vero, o almeno la sua traiettoria apparente, portava verso lo svuotamento, l’assenza, il lasciare spazio al fantasma, aspirazioni che hanno reso assai tangibile dentro di me una relazione con quell’affascinante e ribelle danza giapponese, d’ispirazione artaudiana. E siccome i fantasmi si manifestano attraverso il possesso – questa è la loro lingua, quando è percepita a livello fisico – il corpo di Lauro diventa il terreno aperto a ogni potenzialità, sia di abbandono che di resistenza. Se la musica è stata la prima chiave di accesso al racconto di Mondo, non si possono, tuttavia, dimenticare le parole: ce ne sono molte, organizzate secondo un’esplosione a catena, piuttosto improvvisa. Si tratta di un lungo elenco che, nello sfilare davanti a noi, con il corpo di Lauro sul proscenio, e poi letteralmente dappertutto, quando il danzatore lascia la scena ed entra nello spazio del pubblico, prima al nostro fianco, poi alle nostre spalle,  fa pensare a una mappa di idee, fenomeni, luoghi comuni, che mutano forma con il cambio di una lettera, lo spostamento di un prefisso, lo scivolamento in una lingua altra, diversa dall’italiano. È una costellazione di pigrizie e arguzie lessicali, improvvise distanze e accostamenti (anche divertenti), che, rispetto al significato che ogni espressione porta con sé, crea allo stesso tempo uno svuotamento e un eccesso di senso. Di certo, la sensazione principale che ho provato in questo momento dello spettacolo è quella di un assedio. 

Il solo si chiude in un estenuante commiato, attraverso il respiro post-rock dell’ultimo brano musicale, in crescendo, elettronico ma soprattutto fortemente distorto. È l’ultimo svuotamento di sé, Lauro crolla, si risolleva, si tende e si sospende, accetta, in definitiva, quello che il mondo è. Ed è così che lo spettacolo si chiude, improvvisamente tornando a essere “spettacolo”, solo quando vediamo il danzatore riprendere il suo equilibrio biologico, in modo perplesso, sfinito, ma consapevole di aver provato a essere mondo per oltre trenta minuti, uscendo di scena tra gli applausi. Solo che, in questo caso, ci è voluto molto tempo prima che i fantasmi del mondo riprendessero la loro condizione pacifica e invisibile e si dileguassero, lontani.


Tre voci di Tilia Auser: frammenti di parole che restano integre


Pochi minuti dopo il grande lavoro fantasmatico di Gennaro Lauro, nello stesso spazio dell’hangar del Consorzio dell’Ortofrutticola, ma appena qualche metro più in là, ci attende Tre voci, di Tilia Auser, nome affascinante nel quale Sara Bertolucci, attrice, e Riccardo F. Scuccimarra, musicista, intendono far convergere estetiche trasversali, tra teatro, performance, musica, installazione. Tre voci, sostenuto da importanti realtà residenziali, come la Corte Ospitale, Santarcangelo, L’arboreto e Florian Metateatro, ha ottenuto la segnalazione speciale al Premio Scenario 2023 e, almeno rispetto alla versione vista in Terreni Creativi, se dovessi pensare a un modo per definire questo spettacolo lo sintetizzerei nell’espressione “mise-en-scène per voci e poesia”. Se la poesia è quella, dolente e rabbiosa, di Sylvia Plath, le voci, in realtà, hanno tutte la stessa origine, incastonate nella straordinaria ricchezza vocale di Sara Bertolucci, sola in scena, abile a costruire complessi ed acidi fondali sonori, manipolare campionamenti, amplificare registrazioni analogiche, cantare “dal vivo”, accartocciare fogli di carta al microfono per poi  destinarli a un loop che si consegna a un futuro indecifrabile, ambiguamente sospeso tra il gesto di distruzione e quello di traccia audio indelebile: Bertolucci regge con il suo corpo in azione lungo l’arco scenico l’intero impianto sonoro dello spettacolo, che è poi l’elemento chiave della proposta estetica di Tilia Auser, sulla base delle musiche originali di Scuccimarra, che firma anche il disegno sonoro.


Sara Bertolucci in "Tre voci"
Foto di Luca Del Pia

L’aspetto più interessante di questo esperimento di concerto discontinuo, in cui la forma canzone giunge solo saltuariamente sotto forma di tasselli di un mosaico incompiuto e impossibile – preziosi proprio perché fragili –, a mio avviso, sta nelle problematiche che è in grado di sollevare, legate alla componente visiva della proposta stessa. La scena, nella sua estensione, è sezionata in tre parti, coerentemente con il titolo, ma rispetto alla sua profondità, i piani sembrano essere molti di più, perché la scelta di Tilia Auser è quella di avvolgere l’impianto sonoro tra coltri di veli che impediscono quasi sempre di cogliere la fisicità diretta del corpo dell’attrice. Bertolucci si presenta sin dall’inizio in questa chiave di negazione, con una luce alle sue spalle che si proietta attraverso un velo che ce la nasconde e che crea una sorta di fascio luminoso tutto intorno alla sua testa, come un’aureola, con il resto del corpo reso opaco dal controluce. In più momenti, l’attrice utilizza scenicamente i teli, spesso lo fa appositamente per costruire effetti di luce interessanti, a volte è solo l’attrazione dell’ombra e della negazione a determinare le sue scelte e i suoi gesti. Peraltro, il materiale di cui sono composti i veli non ha nulla di onirico o di stupefacente, o almeno così mi sembra: basandomi soltanto su una percezione, penso che potrebbe trattarsi di una sorta di sottile plastica industriale, nemmeno troppo elegante, di cui si intravede chiaramente la materialità sintetica . Quest’artificialità della messa in scena sembra non aver affatto l’obiettivo di catturare l’attenzione del pubblico per assorbirlo in una modalità estatica e finisce, anzi, per tenerlo a una certa distanza, evidenziando piuttosto un elemento di vulnerabilità della sua natura: un’anima di cartapesta, artigianale, effimera. Così, il dispositivo visivo consente di sviluppare il distacco necessario per non lasciarsi sedurre dalla potenza dell’impatto sonoro, riportandoci alla rappresentazione, alla  “resa scenica”, da intendere anche come denuncia della propria arrendevolezza,  buco nel sublime,  limitatezza, ovvero  confine (Tilia Auser definisce “liminale” la propria pratica performativa, in generale). Il punto, infatti, è che nel “mettere in scena” le voci di Sylvia Plath, bisogna per forza fare i conti con la tensione tra visivo e uditivo: certo, si ha sempre l’opzione di lavorare in direzione di una produzione quasi radiofonica, nel contempo, e al contrario, si può invece scegliere di percorrere la via di un’incarnazione della scrittrice, morta suicida ad appena 31 anni, all’inizio degli anni Sessanta, nel corpo di Sara Bertolucci. Ma né la radicalità sonora, né l’immedesimazione sembrano costituire la soluzione prospettata da Tilia Auser: piuttosto, si fa strada l’idea che, rispetto al percorso di Plath, si può soltanto accettare la sfida di un’evanescenza, ovvero non dire una poesia per esaltarne la bellezza, ma provare a negarla, a negare il poetico per liberarlo. E così, il meccanismo va svelandosi: le trame sonore trasformano l’organico (il corpo di Bertolucci/Plath) in un non meglio definibile inorganico, il singolo (la solitudine di Bertolucci/Plath) in uno sfuggente plurale, il biografico (l’autobiografia dolente di Bertolucci/Plath) in un generico biologico. Alla presenza (angelica?) si può arrivare attraverso la manipolazione di una tecnologia intra-vista, a occuparsi della scomparsa del corpo ci pensa la visibilissima artificiosità dei teli. Convinca o meno la traiettoria di Tre voci di Tilia Auser, mi sembra che, nonostante la complessità delle soluzioni e la difficoltà del percorso proposto, le parole di Sylvia Plath, quelle scelte, innanzitutto, poi dette, amplificate, coperte, reiterate, espanse, cantate, arrivino, quasi miracolosamente, tutte integre, sia per chi conosce già l’opera di Plath, sia per chi, come me, la incontra per la prima volta. Nel contesto della giornata, queste parole, manipolate da Bertolucci – e Scuccimarra in absentia – sembrano ancora dialogare con i fantasmi residui dello spettacolo precedente, in una contaminazione atmosferica fertile di nessi ed evocazioni. E a ripensarci, durante la cena, che segue Mondo e Tre voci, mi chiedo come due spettacoli così diversi siano in grado di parlare lingue così simili.  


Il Cortile: l’essenziale di Scimone/Sframeli e il rito dell’amore


Nel 2004, il Cortile di Spiro Scimone, anche in scena insieme all’altra metà che dà il nome alla storica Compagnia, Francesco Sframeli, e al consueto complice di scena, Gianluca Cesale, vince il premio UBU come miglior nuovo testo italiano, con la regia di Valerio Binasco, che del repertorio di Scimone aveva diretto anche Bar (era stato anche assistente di Carlo Cecchi ai tempi del bellissimo Nunzio, agli esordi della carriera del duo siciliano, di dieci anni anteriore al Cortile). Nel 2024, su un palcoscenico montato sulla terrazza del detto spazio dell’Ortofrutticola, con alle spalle la prospettiva surreale e affascinante di un pezzo di autostrada, attraversata da grossi tir illuminati che squarciano il buio della notte, Scimone e Sframeli rinnovano il loro patto con questo testo e, quando si conclude il rito, un attimo prima che gli attori siano tributati dei meritati applausi, succede qualcosa d’importante.  

C’è una frase, infatti, che Peppe / Sframeli, immobilizzato su una sedia, con un piede mangiato da un topo, circondato da rifiuti, in un contesto di totale abbandono, pronuncia, contemplando l’interno di un grande sacco nero. Per il suo compagno d’avventura, Tano / Scimone, si tratta soltanto di un sacco vuoto, tutto quello che esso conteneva è stato già tirato fuori, è già nel mondo. Peppe però cerca ciò che non sembrava possibile, con il calore di uno sguardo che non si rassegna al vuoto e, in esso, qualcosa trova: “C’è ancora il buio.”, dice. Nell’attimo di silenzio che precede gli applausi, in quella voragine improvvisa di emozione che assorbe tutto, ma proprio tutto, in un punto piccolo piccolo, lanciato nella profondità del cosmo – di cui curiosamente parlerà il critico Alessandro Toppi il giorno dopo, a proposito dell’arte di Enzo Moscato – registriamo, per un momento, il battesimo dell’assenza, il grado negativo si trasforma in positivo e ci sembra davvero di sentirla, quest’entità senza tempo, di toccarla.

Nel contesto della proposta di Terreni Creativi, Il cortile si distingue profondamente dai due spettacoli che avevano aperto la serata, non solo per il differente peso di esperienza e tradizione teatrale che Scimone/Sframeli portano con loro, ma, più semplicemente, perché siamo di fronte a una storia. Il Cortile ha dei personaggi, che chiamandosi, dichiarandosi, manifestando le loro differenti nature, mostrano una parvenza di identità: ognuno di loro presenta tendenze e traiettorie drammaturgiche che vanno a costituire un ecosistema coerente. È proprio la coerenza, a mio avviso, il tratto più determinante della scrittura di Scimone, un sentimento che affonda le proprie creature nella materialità della loro presenza, rinunciando anche coraggiosamente, all’assurdo e al surreale – anche se non alla metafora, che arriva comunque di nascosto, prendendo il pubblico alla sprovvista, come un dubbio. Peppe e Tano – ma anche Uno, ovvero il personaggio a cui dà vita Gianluca Cesale, l’unico che non ha un vero e proprio nome, un indeterminato – sono consapevoli della loro storia individuale e collettiva, dello spazio del mondo, del passato e del presente. La performance degli attori, la costruzione scenica, l’atmosfera, la struttura logica dei dialoghi, tutto contribuisce all’apparizione di un mondo solidissimo e disperato che si manifesta per un’ora di spettacolo, ma che al tempo stesso afferma la sua esistenza anche in una invisibile a-cronicità: Peppe, Tano, Uno, il sacco, la scala, le grandi lettere A (alla base della scala) e B al vertice alto di un triangolo ipotetico, sono sempre esistiti e continueranno a esistere anche dopo i nostri applausi – verrebbe da dire, nonostante noi.

La nostra presenza, tuttavia, è fondamentale perché questo mondo riesca a mettersi in scena, ne è consapevole Peppe / Scimone che, quando si accende il riflettore per la prima volta sullo spettacolo, ha un sussulto strozzato, pur da seduto. Prende vita, e al tempo stesso evidenzia con una reazione sfuggente, minima, che era lì, nel buio anche prima di noi, prima che tutto iniziasse. È un’affascinante ambiguità: non è chiaro davvero se ci stesse aspettando – se stesse aspettando proprio noi. Restiamo nel dubbio perché il respiro che anima il sussulto di Peppe non si risolve in una parola rivolta al pubblico, si limita a stabilire immediatamente, in modo indissolubile, un contatto stupito, consapevole, intenso e, solo apparentemente visivo, in realtà corporeo, organico: è quasi un riconoscimento. 


Spiro Scimone ne "Il cortile"
Foto di Luca Del Pia

Ma se Il cortile è davvero una storia, di cosa parla, allora? Peppe e Tano abitano uno spazio di povertà e abbandono, un topo si diverte a rosicchiare ogni giorno il piede martoriato di Peppe, costretto alla dipendenza dagli aiuti altrui, quindi, di fatto, del solo Tano che lo assiste per qualsiasi cosa, cibo, acqua, esigenze fisiologiche. C'è, poi, un terzo personaggio, Uno, che entra in scena saltuariamente, vive nascosto, in condizioni ancora più misere di loro e ingaggia una quotidiana e disumana lotta pur di accedere, anche se temporaneamente, al circolo di cura e amicizia costituito dai due personaggi, ai quali chiede puntualmente del cibo. L'unico obiettivo di Uno, perseguito ostinatamente, in modo costante, quasi scientifico, da un’entità che più volte torna nello spettacolo e che non si definisce meglio se non con il pronome “loro”, è quello di fare pena, più pena di chiunque altro e si dedica al raggiungimento di questo risultato, attraverso un’esigenza di disumanizzazione, di annullamento, diventando ora un po’ topo, ora un po’ verme: è una metamorfosi continua la sua, che rispecchia quella del pane ricoperto di muffa, che Peppe e Tano gli offrono. Non è davvero un essere umano, non mangia davvero del pane, della propria madre non ha che una dentiera, che si confonde insieme a molte altre, che lui raccoglie in un sacco di plastica bianco – il sacco di Tano, invece, quello che contiene il buio, è nero – dove si raccolgono i resti dell’umanità che non vuole e non può più mangiare, le reliquie. 

Ma se Uno ci porta l’esperienza del resto del pianeta, dell’intera umanità, Peppe e Tano restano i custodi della propria utopia, realizzata ai margini del mondo. Il cortile è, infatti, per me, innanzitutto una messa in scena dei propri riti di amicizia, di amore, di cura (che espandono più nel profondo il concetto di riconoscimento, evocato dal sussulto iniziale di Peppe). Alain Badiou, celebre filosofo francese, del resto, in un libro di qualche anno fa, aveva già paragonato il teatro all'amore, osservando per esempio come una dinamica frequente dell’amore, di cui trova analogie interessanti con le prove – o le repliche – teatrali, sia quella di trovarsi a chiedere a volte di ripetere, di pronunciare, qualcosa che vogliamo sentirci dire (per esempio, Badiou si riferisce a una frase come “Dimmi che mi ami! Dimmelo ancora!”), anche se magari conosciamo già il sentimento della persona. In Il cortile, noi spettatori, riconosciamo la logica drammaturgica dello spettacolo, quasi ne riusciamo a prevedere la reiterazione di formule, che si riattivano – da sempre, evidentemente –nei dialoghi tra i personaggi e, così facendo, siamo noi stessi a chiedere implicitamente di ripetere – ripresentare, rappresentare – il rito dell’amore di Peppe e Tano. 


Resta da chiedersi cosa sia, in definitiva, questo cortile, che dà il titolo allo spettacolo e che, evocato, o meglio concretamente situato, nello spazio invisibile del fuori-scena, non si vede mai. Se ne parla però. Il cortile non è un giardino, innanzitutto, ma uno spazio che, solitamente, gli uomini condividono con le bestie: in questo spazio invisibile c’è l’altra versione del tempo, non quello presente, che passa e scorre, ma quello confuso e sterminato della sottrazione, si fa l’amore nel cortile, ci si nasconde nel cortile, ci si sottrae. E la sua costante allusione fantasmatica fa da esatto contrappeso, in termini drammaturgici, al già citato sacco nero, di cui si prende cura Tano, che invece è tutta presenza, tutta materialità. Con una fisicità sottile, attraverso gesti sotterranei, Scimone, quasi senza farsi notare, come se fosse la cosa più naturale del mondo, trascina il sacco ogni volta che si ritrova a camminare da una parte all’altra della scena, senza lasciarlo mai sguarnito, incontrollato, e allo stesso modo, lo scosta leggermente, trattenendolo vicino a sé, come per proteggerlo, tutte le volte che entra in scena Uno. In quel sacco c'è l'essenziale, spiega Tano, all’inizio; ed è uno svuotarsi progressivo e concreto col passare del tempo, perché di fatto il passaggio del tempo è l’unico vero accadimento dello spettacolo e, con sé, la vecchiaia che incombe, le forze che si ritirano, il deterioramento imminente. Dal sacco nero, vengono estratti oggetti coerenti con ciò che ci si attende dalla narrazione (dalla storia), una coperta, una corda, del pane. Ogni tentazione di interpretare, di farne metafora, fallisce: io guardo quel sacco e sento che tutto in scena è letterale (la A e la B sono lettere), tutto è presente ed è un presente visibile, reale, fatto di privazioni, così come il cortile è l’assente, invisibile, virtuale, è il pieno. 

Il Cortile, vent’anni dopo la prima volta, può finire ancora con la potenza di un testo che non muore e ci si rende conto del suo pezzetto di eternità proprio quando, attraverso quella battuta finale, ci si ritrova, per un istante, nell’abisso scomodo e profondo che si apre sotto di noi tutte le volte che succede davvero qualcosa a teatro. Quando si ha la prova inconfutabile che il sacco sia davvero irrimediabilmente vuoto, è allora che si vede, finalmente, il buio.


DOMENICA 4 AGOSTO


Luisa di Valentina Del Mas: danzare l’amore e altri misteri (e una perplessità)


Il prologo di Valentina Del Mas per il suo solo più recente, Luisa, è una dichiarazione d’amore: è dunque esplicitamente su questo sentimento che si fonda il suo progetto, vincitore del Premio Scenario Periferie 2023, prodotto da La Piccionaia, con una residenza al Teatro Due Mondi di Faenza e un percorso di crescita, probabilmente, ancora in fieri. 

Luisa è la dedicataria dell’amore della performer, la quale promette di lasciarsi “trapassare” – questo è l’illuminante verbo che utilizza – dal suo corpo, dalla sua poesia, dal suo essere, come se Del Mas volesse lasciarsi abitare, con porosità, più che trasparenza, dalla ricchezza dell’oggetto del suo amore, un tesoro che vuole condividere con noi. Oltre al corpo di Del Mas e a una sedia con cui interagisce per tutto lo spettacolo, colpisce, al centro del proscenio, la presenza di una rosa rossa dai petali spalancati, in piena fioritura, dentro un vaso trasparente alto e stretto: una simbologia antica, cristiana, affascinante. Elemento scenico fondamentale è, soprattutto, una voce di donna registrata, la cui articolazione faticosa, quasi sillabata, costantemente trascinata è direttamente proporzionale alla poesia che è in grado di regalare, a evoluzioni di pensiero semplici e illuminanti, a un sentimento di vita innamorato e innamorante: su queste parole, sul potenziale che esse aprono, Del Mas costruisce una coreografia costellata di gesti aggraziati, fioriture, improvvise folate di libertà, corse e baci, molti, moltissimi baci, che si imprimono su ciò che esiste nel mondo a noi accessibile tramite i sensi – la sedia – e su ciò che esiste in altri livelli di percezione – il suo Aldo, punto di riferimento, “porto sicuro”, il suo amore in generale per ciò che la circonda. La performer accompagna i numerosi interventi vocali registrati con un abilissimo e convincente playback, scelta interessante, per quel che mi riguarda, perché non sembra voler simulare l’effettiva pronuncia di quelle parole: questi suoni non sembrano uscire, al contrario danno l’impressione di entrare nel suo respiro. Le parole registrate della sua Luisa, arrivate dal chissà-dove della riproduzione sonora, si introducono nel suo corpo, attraverso le labbra, le guance, i denti, la lingua: la bocca qui viene presentata nell’atto paradossale non di parlare o di cantare, ma di ascoltare, recepire, trattenere, conservare. In questo processo, colgo la potenza e la coerenza di quel verbo dichiarato all’inizio: “trapassare”, una modalità davvero convincente di mettere in scena l’amore.


Valentina Del Mas  in "Luisa"
Foto di Luca Del Pia

Se la bocca di Del Mas si impossessa, si nutre, di Luisa, al suo corpo poroso e danzante, invece, tocca il compito di restituirla a noi. Ed è qui, nella restituzione, che probabilmente il lavoro mi ha suscitato qualche riflessione: ciò che mi ha lasciato perplesso, pur nella bellezza del progetto generale che merita appoggio e fiducia, è che, talvolta, sembra farsi trovare a metà strada tra la restituzione di un sentimento e quella di una cifra biografica specifica, ovvero non so più se si parli di amore o di Luisa. 

Da un lato, infatti, Del Mas, con la luminosità aggraziata che ne contraddistingue la fisicità, si libra e piroetta nell’aria, si abbandona sulla sedia, cuce trame di un quotidiano invisibile, canta “Amo” di Fausto Leali – e stavolta il playback diventa simulazione, gioco, forse perdendo quindi qualcosa del suo progetto di cura, potentemente espresso fino a quel momento –, dall’altro io spettatore osservo, memorizzo, riconosco le posture che tornano nella performance, mi interrogo sulla affascinante e misteriosa significazione del gesto delle mani che si congiungono sulle punte delle dita, lasciando un buco d’aria, e che si spostano sul proprio corpo, sul seno, sul basso ventre, come per creare un’inquadratura, una focalizzazione, ma anche una ferita (curiosamente, un’altra simbologia importante, a livello iconografico). 

E in questa contrapposizione tra la traiettoria della performer e il mio sguardo dal pubblico, sento crescere una distanza profonda tra noi. Probabilmente, perché mentre Del Mas si fa trapassare dal mistero gioioso del suo amore e lo mette in scena con il proprio raffinato linguaggio del corpo, poetico e consapevole, io comincio a sentire la mancanza della Luisa reale, della storia che avrebbe potuto portare, della cifra specifica della sua stessa fisicità, e perché no, anche della sua biografia. Nei giorni successivi allo spettacolo, tanta era la curiosità intorno a Luisa, ho cercato qualche informazione in più al riguardo e ho trovato una delicata descrizione del progetto fatta dalla stessa Del Mas in un video prodotto per il Premio Scenario, in cui la danzatrice racconta che la Luisa a cui ha dedicato, o meglio su cui ha incentrato, il suo spettacolo è una persona realmente esistente, conosciuta durante un laboratorio con utenti di una cooperativa sociale, la cui qualità del movimento unita alla poeticità del pensiero ha innescato un profondo cambiamento artistico e interiore nella performer. Ed è proprio in questo passaggio raccontato che sento esattamente ciò che, pur avendo trovato molto interessante il progetto di Valentina Del Mas, mi ha suscitato qualche frustrazione: è come se l’amore, folgorato dalla bellezza di un incontro, non bastasse sempre da solo a irradiarsi al di fuori di sé stesso. È come se l’incanto di questo amore fosse stato troppo dichiarato, troppo svelato e avessi avuto bisogno di dubitare della stessa esistenza reale di Luisa: un’esigenza di sottrazione, che forse è poi la lingua segreta in cui i misteri si esprimono. 


Ritornanti di Compagnia Enzo Moscato: tra il tempio e il quotidiano 


Nel 2002, Enzo Moscato rielabora e incastra tre testi scritti nel 1983, quando di anni ne ha 35. È l’età che oggi si considera, in modo arbitrario, per non dire pigro, come spartiacque tra la carriera giovane e quella adulta, in riferimento all’accessibilità ai bandi – e allora può valere la pena riflettere sul fatto che il primo riconoscimento nazionale per il suo genio drammaturgico avviene quando di anni ne ha addirittura 39, con il Premio Riccione Teatro per Pièce Noire. I testi, Spiritilli, Little Peach e Cartesiana andranno a costituire una creatura teatrale eterogenea e affabulatoria sotto il cappello di un titolo che riprende Anna Maria Ortese, scrittrice molto amata da Moscato: Ritornanti, ovvero, nella versione ortesiana, le anime morte che abitano la città di Napoli e, oscillando pericolosamente tra piccoli dispetti e grandi sciagure ai danni del popolo dei vivi, alimentano il giustificato rispetto per il soprannaturale della tradizione folclorica e culturale napoletana.

Nella registrazione di questo spettacolo di cui si può ancora fruire in una diretta radiofonica in Rai del 25 marzo 2002 – e riprogrammata pochi giorni dopo la morte di Moscato, a gennaio di quest’anno (qui Ritornanti su Radio 3) grazie alla cura e all’affetto di Laura Palmieri – si sente la voce di un bambino che scandisce l’affabulazione di Spiritilli con un ipnotico distico dalla metrica zoppicante e sinistra, un anapesto infantile occupato dalla reiterazione della sillaba bla (che da un lato mi fa pensare all’onomatopea fumettistica della parola, ma dall’altro è anche allusione al prefisso del verbo greco blaptéin, quello che genera il termine blasfemia, per esempio) a cui fa seguito una cantilena giambica che esorta il folletto monaciello, celebre spirito invisibile delle vecchie case partenopee, a farsi acchiappare. È la voce di Giuseppe Affinito, figlio di Claudio, storico organizzatore di tutta la carriera di Enzo Moscato e cresciuto, di fatto, nel cuore della sua arte (Claudio Affinito dice, in un episodio radiofonico in cui si ricorda l’amico scomparso “Giuseppe è mio figlio, ma è una creatura sua”, in quella struggente fusione di anime che è l’ecosistema in cui si irradia la luce di Moscato). Davanti al pubblico di Terreni Creativi, la Compagnia Enzo Moscato, orfana del loro poeta, drammaturgo, attore, cantante, rimonta, con materiali parzialmente differenti, Ritornanti e in scena, accanto alla storica interprete, presente anche nella sua prima versione, Cristina Donadio – meravigliosa Little Peach, con l’intatta amarezza del suo vestito “d’argento, d’acciaio”, con la sua contagiosa “falsa gioia”, quelle “finte ciglia in questo vero, in questo vostro vero, detto show” – c’è proprio Giuseppe, ormai cresciuto, perfettamente calato nella sua scomoda, responsabilizzante, elettrizzante parte di erede dell’arte di Moscato. Ed è proprio su questo tema, più che sullo spettacolo in sé, che vorrei soffermarmi in questo mio testo, per due motivi: il primo è che è ancora troppo presto per capire cosa sia uno spettacolo creato, pensato e agito già anche soltanto in fase di scrittura da quel corpo celeste che è stato Moscato, senza di lui e sarebbe fin troppo facile o drammaticamente difficile elaborare un pensiero, per me, a partire semplicemente da quello che ho visto, laddove mi sembra ancora troppo importante, troppo inaccettabile, troppo incandescente, quello che non ho visto (e sentito); il secondo è che l’intervista che il giornalista e critico Alessandro Toppi ha condotto al termine dello spettacolo ha prodotto emozioni talmente intense che ha finito per fornire al pubblico una chiave poetica fondamentale per accedere non solo al Ritornanti che avevamo appena visto, ma a tutto il Moscato ancora sconosciuto, ancora da scoprire, attraverso l’amore di cui si è circondato e che gli è stato meritatamente tributato in questa notte di mezza estate.


"Ritornanti" di Compagnia Enzo Moscato
Foto di Luca Del Pia

Seduti su quattro seggiolini, nel luogo sacro della scena, mentre il vento sbuffa ogni tanto sui microfoni facendosi sentire e i tir, che sfrecciano sull’autostrada resa invisibile dalla notte, sembrano davvero attraversare  il cielo, Cristina Donadio, Claudio Affinito e Giuseppe Affinito dialogano con Toppi e anche loro, inevitabilmente, – è anche per questo che mi sento autorizzato, nel mio piccolo, ad andare fuori tema – parlano di quanto avvenuto, considerando in questo “quanto avvenuto”, non tanto lo spettacolo appena concluso, ma i 40 anni di vita insieme a Enzo Moscato e, in modo forse più dolente, più imperscrutabile, gli anni a venire, quelli in cui non vedremo, né sentiremo più il suo corpo (quella che Toni Servillo ha definito “evanescenza fantasmatica”), e la sua voce. Di questo dialogo, mi ha emozionato tutto, in primis la forza di Cristina Donadio, nel raccontare la tragedia che aveva unito in modo indissolubile, già nel settembre del 1986, la sua biografia a quella di Moscato, quando nello stesso incidente persero la vita Annibale Ruccello, grande amico e complice di Moscato, e Stefano Tosi, allora marito dell’attrice. Si sente, nel suo sorriso ampio, nella sua voce schietta e potente, la vibrazione di Little Peach, ancora, l’accettazione di un trauma lontano e la bellezza di un corpo generoso all’incontro, al presente, così come a fare i conti con la propria narrazione. Mi commuove profondamente la voce flebile e dolente di Claudio Affinito, in cui l’amore per l’amico perduto confina con il pragmatismo di un sapiente organizzatore che conosce, presagisce anzi, perfettamente le difficoltà di un futuro da abbracciare con fiducia, ma al tempo stesso a cui riservare delle energie straordinarie, per non permettere che l’assenza pesi più dell’enorme patrimonio di presenze (testi, poesie, canzoni, idee, progetti, corpi vivi e pronti a raccoglierle) che ancora oggi esistono e meritano di continuare a vivere.

E infine, mi ha colpito profondamente la figura di Giuseppe, il bambino oggi adulto che ricorda tutte le domande che, durante la sua crescita, gli ha rivolto, tutto l’entusiasmo, ancora vibrante, di un patrimonio infinito di risposte, misteriosamente custodite nella sua memoria personale, di scherzi, di intimità, di magia, di luce, di dolore, che noi pubblico, sulla soglia di un’esperienza d’arte e di vita così profonda, così sconvolgente, in un certo senso, non riusciamo che a intuire. E sono immagini vaghe, promesse di felicità, ma rivolte al passato, un passato a noi inaccessibile. Nel sorriso di Affinito, nel suo modo ironico e scanzonato di togliere gli abiti del Maestro (“Musica, maestro!” era così che, ci racconta, Moscato apostrofava chi lo chiamava in questa maniera) e rivestirlo di fragilità, di amore, di quotidiano, nella sua forma di “normalizzazione” di una vita che normale, qualsiasi cosa questa parola voglia dire, non lo è stata e non lo sarà mai, nel suo stesso annunciare, quasi umilmente, di aver cominciato da qualche anno a scrivere, a creare cose proprie. Attraverso questo approccio, ecco, mi sembra di veder rivivere un’eredità, non tanto nel tempio dei fedeli che ne ravvivano il ricordo (eppure c’è e ci sarà bisogno anche di loro), ma nei dubbi e nelle complessità del giorno per giorno, nel fuoco e nell’acqua delle potenzialità, nella confusione della strada, nella “realtà fisica o generazionale o fantastica” come diceva Anna Maria Ortese, nel materiale composito della vita: qui io ho sentito la traiettoria di Enzo Moscato ancora potente, attraverso chi porterà avanti il “nomadismo esistenziale” della sua compagnia, con la c minuscola, quella che ci accompagna, che ci è compagna.


E quindi mi dilungo su una recensione che non parla dello spettacolo, ne sono consapevole, ma di ciò che lo spettacolo ha scaturito, un incontro di commovente sincerità per elaborare collettivamente un lutto artistico che è ancora lì, sospeso in un territorio italiano che ancora ha bisogno, qua e là, che qualcuno si prenda il tempo – servirà, bisogna farlo senza stancarsi né spazientirsi – di riavvolgere il nastro sugli anni Ottanta a Napoli, per riaprire criticamente ma in forma ancora più aperta di quanto non stia già accadendo, e in ogni caso accade più nel mondo accademico, critico, giornalistico che in quello teatrale, purtroppo, le avventure di Moscato, Ruccello e di Neiwiller, questi grandi ribelli del teatro, che tradirono la tradizione forse nel luogo dove farlo può (poteva?) essere più complicato che altrove e, come disse Moscato stesso un giorno in un'intervista, “fracassarono” tutto.



SCHEDE TECNICHE


Terreni Creativi 2024


direzione artistica Festival sezione teatro Francesca Sarteanesi

direzione artistica Festival sezione danza Francesca Foscarini

direzione artistica Festival sezione musica Angela Giorgi

direzione organizzativa e coordinamento progetto artistico Maurizio Sguotti

direzione organizzativa e relazioni esterne Tommaso Bianco

direzione tecnica, logistica e amministrazione Alex Nesti

segreteria organizzativa e amministrativa Elisa Furiosi

comunicazione e cura Elena Lamberti

progetto grafico Nicola Puppo

documentazione fotografica Luca Del Pia

responsabile social Filippo Tampieri

squadra tecnica Maria Virzí, Filippo Di Dio, Amerigo Anfossi

staff: Lorenzo Romano, Viola Lo Gioco, Francesca Giuliano, Elena Buffa, Alberto Costa, Fabio Ricciardi, Fausto Fioriti, Giacomo Linguito, Emanuela Borra, Valeria Callegaro, Simona Zuffo, Davide Manzi, Alessio Giuliano, Clara Vite, Alice Rasetto, Alessandro Conserva, Eleonora Ghezzi, Lorenzo Buschiazzo, Andrea Gioberti, Eleonora Gallo, Elisa Mezzano, Matteo Missaglia, Bianca Frasso, Alessio Lombardo, Catalina Villa, Nicola Basso


Spettacoli


Mondo

Gennaro Lauro

idea/creazione Gennaro Luro

luci Gaetano Corriere

produzione Lauro / Cie Meta

coproduzione Associazione Sosta Palmizi

partners KommTanz/Abbondanza Bertoni 2019, FabbricAltra – Schio


Tre voci - studio scenico per un radiodramma in versi di Sylvia Plath

Tilia Auser

con Sara Bertolucci, Riccardo F. Scuccimarra

ideazione, drammaturgia, composizione vocale Sara Bertolucci

disegno sonoro e musiche originali Riccardo F. Scuccimarra

con il sostegno di Scenario ETS, L’arboreto – Teatro Dimora | La Corte Ospitale – Centro di Residenza Emilia-Romagna, Santarcangelo Festival, Florian Metateatro – Centro di Produzione Teatrale

si ringrazia Delio Scompiglio


Il Cortile

Compagnia Scimone Sframeli

di Spiro Scimone

con Francesco Sframeli, Spiro Scimone, Gianluca Cesale

regia Valerio Binasco

scena e costumi Titina Maselli

disegno luci Beatrice Ficalbi

regista assistente Leonardo Pischedda

assistente scene e costumi Barbara Bessi

direttore tecnico Santo Pinizzotto

foto di scena Marco Caselli Nirmal

Luisa

Valentina Dal Mas

di e con Valentina Dal Mas

direzione tecnica Federico Fracasso

occhio esterno/assistente alla creazione Ludovica Messina Poerio

registrazioni audio Matteo Balbo

residenza artistica presso Teatro Due Mondi di Faenza

produzione La Piccionaia

un ringraziamento a Angela Marangon, Claudia Rossi Valli


Ritornanti - omaggio a Enzo Moscato

Cristina Donadio e Giuseppe Affinito

di Enzo Moscato

produzione Compagnia Enzo Moscato/Casa del Contemporaneo

coordinamento Fabio Calvetti

organizzazione Claudio Affinito


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