Assieme ad alcuni carovanieri di Teatro Vagante vado a vedere Barbie di Greta Gerwig. Per chi se lo fosse perso, la trama grossomodo è questa: a Barbieland, il paese dove le Barbie e i Ken vivono armoniosamente secondo un ritmo ciclico e ripetitivo, la protagonista (Margot Robbie, che incarna lo stereotipo della bambola creata da Ruth Handler) attraversa una crisi esistenziale indotta da intrusivi pensieri di morte. Nel tentativo di venirne a capo, viaggerà fino alla sede centrale della Mattel, sua casa di produzione, con conseguenze immaginabili.
Durante il viaggio di ritorno su una rombante Seicento bianca, emergono gli immediati argomenti del film: l’asfissia del sistema patriarcale, la crisi del maschio bianco-etero-cisgender, la necessaria creazione di un immaginario non performativo, la ripulitura dell’immagine di Barbie…
Arrivato a casa, insonne, inizio a sfogliare Animali in versi di Franco Marcoaldi (2006), una raccolta di poesie basata sulla vita e le caratteristiche di bestie quotidiane, familiari ai più, come il cane, il topo, il fringuello. Leggendo Prologo, che introduce il volume e segna la distanza tra la nostra vita e quella animale, mi colpiscono questi versi:
Di natura naturante il nostro tempo
cancella giorno dopo giorno
ogni residua traccia – perciò ricade
sulle vostre spalle di animali
[…]
il racconto oggettivo
della vita senza note
a margine e commento.
Ripenso al disorientamento di Barbie di fronte alla certezza della morte, al suo rifiuto del finito, dell’emozione, della casualità. Nella sua esistenza priva di stalli è entrato, senza bussare, l’umano.
Il giorno dopo siamo a Civitaretenga, paese in cui verrà messa in scena la festa- spettacolo che chiuderà la residenza. Percorriamo i suoi vicoli stretti sorvegliati da un paio di gru svettanti nel cielo, percorsi da poche macchine e ancora meno persone. L’atmosfera è placida e fresca.
«Non dobbiamo avere paura di niente quando siamo assieme. L’imprevisto è nostro amico»: Sara ci spinge a seguirla in fila indiana e a imitarla mentre attraversa la strada ondeggiando le braccia. Ci alterniamo al comando di questa schiera ubriaca che saluta i contadini nelle fasce, scruta il paesaggio premendosi una mano sulla fronte, indica con un dito l’orizzonte. Procediamo per similitudine.
Raggiungiamo “La casa verde”, sede dell’azienda agricola dello zafferano di Navelli, dove troviamo Dina, Maria, Letizia e Agnese. Ci accolgono, raccontano di sé: «Sono nata e vissuta qui. I miei figli e mio marito amano Civitaretenga. Io no. Io sono sempre stata una da città», confessa una di loro. Spiegano dettagliatamente il processo di produzione dello zafferano, l’esigenza di ruotarne la coltivazione, così che ogni campo abbia modo di riposare per cinque anni, l’aiuto reciproco che lega la comunità del paese.
«Lo zafferano se la gestisce come gli pare: può fiorire tutto insieme in una notte e poi, alle dieci di mattina, iniziare a perdere le sue proprietà», afferma Dina, evocando le irruenti e incontrollabili emersioni dei pistilli, le chiamate all’alba a parenti, amici, vicini di casa, la faticosa raccolta, l’atmosfera di festa spontanea durante la sfioritura.
A fine giornata siamo a Navelli, un paese vicino, seduti al tavolo di un bar ad aspettare la corriera per L’Aquila. Mentre ci incamminiamo la vediamo arrivare, in anticipo, e proseguire lungo la strada. La guardiamo stupefatti: una corriera può ritardare, saltare, ma non passare prima! Dopo alcuni secondi di incertezza, io e alcuni altri le andiamo dietro a perdifiato, pur vedendola sparire dietro la curva. La rincorriamo insensatamente, amando quest’ultimo imprevisto, cercando di trattenerlo ancora per un po’.
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