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Tragùdia. Il canto di Edipo | Coniugare l’archetipo

  • Marta Cristofanini
  • 7 apr
  • Tempo di lettura: 6 min

L’etimologia della parola attica tragùdia, consultando la Treccani, è incerta. 

L’unica evidenza sta nella traduzione delle due parole che la compongono: trágos, ovvero “capro”, e odé, “canto”. Secondo le due interpretazioni più classiche, la tragedia può essere originariamente intesa come il canto per il capro, sia nel caso in cui il capro fosse il premio materiale per la vittoria nella gara di canto tra gli antichi poeti sia nel caso in cui s’intendesse il sacrificio dell’animale come offerta votiva. Per la seconda interpretazione, invece, i capri non erano altro che gli attori travestiti, dal momento che i cori erano composti da satiri chiamati, per l’appunto, capri. 


Il dibattito è complesso e articolato, ma quello che emerge fin dalle sue prime righe ammicca nel sottotitolo scelto da Alessandro Serra per accompagnare Tragùdia. Il canto di Edipo. 

Scegliere di “cantare” e di mettere in scena la tragedia per antonomasia – la cui portata si ramificherà nella storia dell’umanità in molteplici direzioni, compresa quella psicoanalitica – non è quindi un caso, a partire dall’indagine sulla sua stessa origine. Il dittico denso, scolpito con precisione da Serra come di consueto nella luce e nell’ombra del palcoscenico, riunisce in un unico atto l’Edipo re e l’Edipo a Colono di Sofocle, rappresentati all’epoca a trent’anni di distanza l’uno dall’altro. 


Tragùdia_AlessandroSerra
Tragùdia | Foto di Alessandro Serra

Potremmo definire Sofocle come il perfetto raccordo tra natura e cultura, tra quello che fu il primo impulso fuoriuscito dal canto urgente, viscerale di Eschilo e l’architettura razionale, sublimata delle tragedie euripidee: ed è proprio nel paradosso di Edipo che meglio si esprime tutta la tragedia della commedia umana, dove la cecità metaforica di non aver saputo vedere la verità si compie con crudele ironia nell’accecamento che si auto-procura il re di Tebe, beffato dagli Dei e dai loro oracoli. Dopo aver abbandonato il proprio protagonista all’inesorabile logica della profezia che si autoavvera nel momento stesso in cui, credendo di sfuggirvi, Edipo si ritrova a compiere il delitto e l’incesto ai quali era predestinato, nell’Edipo a Colono non resta a Sofocle che esplorare i territori della redenzione, sfiorando un misticismo di matrice quasi orientale, dove l’imprescindibile elemento misterico e dionisiaco viene esaltato nella sua forma più accattivante.  


Esperto cultore dei meccanismi fiabeschi, delle cui atmosfere cariche di mistero avvolge le proprie creazioni, la narrazione del tragico elaborata da Serra (che ben era emersa anche nella liturgia oscura e sacrale del Macbettu) ha a che fare con la costruzione di archetipi, come lui stesso sottolinea in Ciò che vogliamo  Appunti per una scrittura di scena. E l’archetipo racchiude in sé la dimensione escatologica del mito, di cui la ritualità del teatro si fa prima interprete tramite un rigoroso lavoro fisico e musicale, confrontandosi con l’identità arcaica che la caratterizza. 

Quando pensiamo al termine “arcaico”, tendenzialmente siamo portati a coniugarlo al passato; ma l’arcaicità del mito, la sua potenza, sta tutta nella morsa del suo eterno presente. La pietrificazione dei personaggi, l’eco delle loro vicende, avvicina il mito alla fiaba, trovando origine nella stessa delizia, nelle orecchie colmate di terrore e stupore da quei racconti orali che in qualche modo dovevano rafforzare chi li ascoltava. Non a caso è con l’Antica Grecia, tra le sedute di Epidauro, che si comincia a percepire quella funzione catartica attribuita poi tradizionalmente da sempre al teatro. Il suo gemellaggio con il dionisiaco risiede tutto lì: nell’unione della paura all’estasi, dove è lecito raffigurare il proibito, ascoltare l’inascoltabile, e nel grido bacchico che rovescia gli occhi e infiamma le bocche, accettare l’inaccettabile


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Tragùdia | Foto di Alessandro Serra

Recuperare questa tradizione non è cosa semplice, non solo perché ci troviamo a uno stadio di “maturità” umana che ha abbandonato potremmo dire da un bel pezzo lo sbigottimento e i tremori infantili; all’orrore, interno ed esterno, ci abbiamo fatto il callo: abbiamo Erinni perennemente furiose nella testa, sugli schermi, dappertutto. O per dirla con Flaubert: Les Furies, c'est nous. E quindi, assistendo a un’opera come Tragùdia, viene spontaneo chiedersi non tanto se abbia senso ancora oggi rappresentare le tragedie antiche, quanto pensare che cosa si voglia comunicare o dimostrare attraverso di esse. 


Una risposta un po’ provocatoria potrebbe essere questa: nulla. Non sono tenute a dimostrare nulla, al di fuori di loro stesse. Partire da questo presupposto aiuterebbe a vanificare quei tentativi che vogliono nella riattualizzazione ad ogni costo dei classici la risposta artistica più inflazionata al tempo che passa. Ma perché si dovrebbe riattualizzare qualcosa che parla la lingua dell’eterno presente? Ed è questo ascolto attivo, e non passivo, della voce dell’archetipo che sprigiona da lavori come quelli di Tragùdia una forza magnetica e atavica: anche quando la lingua dell’eterno presente viene incarnata dalle sonorità ipnotiche e familiari del grecanico, idioma antichissimo e relegato ormai a un fazzoletto di terra stretto tra il mare e l’Aspromonte. Non importa che per “capirlo” siano necessari i sovratitoli; da un certo punto in avanti, non si sente neppure più la necessità di costringere gli occhi verso quelle lettere bianche proiettate su sfondo nero. Esiste il suono, esistono i canti, intonati senza accompagnamento musicale, che vibrano in tutta la loro magnifica austerità, ed esistono i corpi, anzi un solo corpo, diffuso: quello del coro


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Tragùdia | Foto di Alessandro Serra

Vero protagonista del teatro greco, che partecipa agli accadimenti con compassione, provando quindi lo stesso dolore di chi lo subisce, il coro muove, amplifica, sostiene, toglie, aggiunge, mastica e sputa. È dove voce e corpo s’incontrano e si mischiano in quell’amalgama che rende lo spettatore – colui che tutto vede e tutto sente – presente e rappresentato sulla scena

La cura della partitura fisica è indissolubilmente legata allo spazio scenico, che si scompone e ricompone accompagnandoci attraverso il dipanarsi spazio-temporale della storia, oltre quel “salto nel buio” letterale di momentanea privazione sensoriale che marca la cesura del passaggio dall’Edipo re, appena accecato, all’Edipo anziano e vagabondo arrivato con la figlia Antigone alle porte di Atene, dove il re scacciato riuscirà a trovare finalmente, grazie all’aiuto caritatevole di Teseo, la propria assoluzione.


Tra le immagini vibranti, fotografiche, che Tragùdia imprime nella retina dei suoi iniziati, c’è quella del guerriero fratricida Polinice, venuto a chiedere sostegno al padre (da lui stesso esiliato) nella sua lotta contro il fratello Eteocle. Un’immagine che per me è stata fine e nuovo inizio. Dopo il rifiuto paterno, vediamo Polinice allontanarsi in una marcia obliqua, interrotta da colpi metallici di caduta e disfatta che ne anticipano la futura sconfitta, mentre intorno a lui già si solleva infausta la polvere rossastra, sporca del sangue di battaglia. Lo segue senza provare a trattenerlo la giovane Antigone, piangendo. Caduta a terra, tra i lamenti, misura con il pugno una manciata di terra, che scende dalla sua mano come polvere dentro una clessidra. Impossibile non vedere affacciarsi, in quel preciso istante, la tragedia che verrà: le unghie di Antigone, annerite da quella stessa sabbia, lurida di morte, che si spezzano nello scavare la degna sepoltura per i suoi fratelli; impossibile non intravedere, nei granelli di quel tempo che le sfugge tra le dita, la sciagura della sua stessa coraggiosa, inevitabile fine. Ed è in questo eterno ritorno, nella sua ricorsività fatale, che la tragedia antica risveglia in noi quella voce assopita, e che nelle fiabe come nei miti ci fa spalancare gli occhi e dire, sempre, di nuovo: ancora, ancora.



Pregi: la direzione scenica e la scenografia; la compattezza attoriale del coro in termini sia fisici che vocali, la fluidità con cui passano dai ruoli fissi a quello corale; i canti.

Limiti: alcuni interventi interessanti nella direzione della commedia (la citazione ricorrente presa in prestito da Frankestein Junior del “Rimetti a posto la candela”; il siparietto dei due servi sguaiati) sono rimasti un po’ isolati rispetto alla messa in scena nel suo insieme. 


Visto a Genova al Teatro Nazionale il 30/03/2025


Produzione

Sardegna Teatro, Teatro Bellini di Napoli, Emilia Romagna Teatro ERT  / Teatro Nazionale, Fondazione Teatro Due Parma in collaborazione con Compagnia Teatropersona, I Teatri di Reggio Emilia

Regia, scene, luci, suoni, costumi

Alessandro Serra

Traduzione in lingua grecanica

Salvino Nucera

Interpreti

Alessandro Burzotta, Salvatore Drago, Francesca Gabucci, Sara Giannelli, Jared McNeill, Chiara Michelini, Felice Montervino

Voci e canti

Bruno de Franceschi

Collaborazione ai movimenti di scena

Chiara Michelini

Collaborazione al suono

Gup Alcaro

Collaborazione alle luci

 Stefano Bardelli

Collaborazione ai costumi

Serena Trevisi Marceddu


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