Non è vero che i capolavori non si dimenticano.
Spariscono e riemergono, invece, come amanti occasionali.
Il primo teatro che ho visto nella mia vita è stato un edificio in preda alle fiamme, un fumo nero che veniva dalla pancia di un luogo antico che non avevo mai visto da dentro, il Teatro Petruzzelli di Bari, divorato da un incendio. Qualcuno, allora – avevo undici anni – usava l'aggettivo “doloso”. Nei telegiornali locali non si parlava d'altro che di nomi e cognomi di imprenditori, politici, presunti criminali, indagini, magistrati, inchieste, giudizi, sentenze.
Il teatro, quindi, aveva fatto irruzione nella mia vita sotto forma, nell'ordine, di: una notizia di cronaca, un luogo inagibile e pericoloso, un mistero da risolvere.
Per fortuna, al fine di frenare l'inevitabile abbrutimento adolescenziale, mio padre mi portò a vedere Natale in casa Cupiello, Le voci di dentro, Non ti pago al Teatro Piccinni di Bari e decisi istantaneamente che da grande sarei diventato, senza ombra di dubbio e senza ancora aver scritto una parola né recitato nulla neppure a scuola, Eduardo De Filippo. Mio fratello però non era Peppino e non avevo sorelle, e questo bastò a convincermi che avrei dovuto puntare a qualcos'altro. Cosa, non lo sapevo ancora. Ma era un inizio e così si inizia in tutte le cose, con quella bellissima espressione italiana, rozza e concreta, che è “farsi un'idea”.
Avevo già l'età per fare scelte estreme o per decidere di non farle mai, invece, quando ho visto Eimuntas Nekrošius riempire la grande sala del Teatro Due di Parma per tre sere di fila, passeggiando con disinvoltura sui territori del non detto di Shakespeare, con l'imbattibile trilogia, Amleto-Otello-Macbeth. Tre, quattro ore di spettacolo, a mani in tasca, gambe ben piantate in radici secolari e piume nella voce. Così mi sembrò.
Anni che passano, ecco che era appena iniziata una primavera a interrompere i miei vent'anni e il Teatro Katona metteva in scena, sempre a Parma, Ivanov di Cechov: l'illusione della perfezione del dolore. Il testo più bello che abbia mai letto. Insuperato ancora oggi, per me. Ne uscii sconvolto.
Poi, se ci penso, se mi sforzo di tornare indietro, vedo ancora molto altro teatro. Per esempio, uno squarcio commovente, un fulmine di fiducia, narcisismo, libertà, disseminato sul palco ora debordante ora desolato, ora barocco ora medievale, del Silenzio di Pippo Delbono, visto a Lisbona, al Centro Cultural de Belém, all'entrata del quale giovani spiantati come me aspettavano che la biglietteria chiudesse la cassa per poter entrare gratis, a spettacolo iniziato.
Un altro piccolo grande corto circuito estetico è stato a Roma, durante An oak tree di Tim Crouch regalato dall'Accademia degli Artefatti: l'ho visto tre volte con voracità perché nell'azione che, replica dopo replica, ormai avevo imparato a conoscere bene, credevo di scoprire la legge universale del movimento dell'attesa disattesa, il motore interno e invisibile delle storie, un desiderio irrequieto e irrazionale di ostacoli, antagonisti, eroi, contrapposto alla più meditativa consapevolezza che la tragedia emergesse naturalmente dal quotidiano solo accarezzandone la superficie. Riconosco in quell'innamoramento un fondamentale passaggio per me spettatore.
Molti anni dopo, a Genova stavolta, ho goduto dell'onnivoro, grasso, superfluo Macello di Giobbe di Fausto Paravidino, al quale, a prescindere dall'esito di un suo spettacolo, devo l'intuizione che un drammaturgo bravo abbia, semplicemente, molte cose da dire e il coraggio per dirle.
L'anno scorso è stato ieri e il ricordo è ancora fresco: ho lottato con la commozione per molto tempo, accettando il gioco crudele dell'Orfeo ed Euridice di Cesar Brie, al Teatro Altrove, forse lo spettacolo più impegnativo dell'intera stagione genovese 2017/2018; ho nutrito un ego borghese e illuminista con il sontuoso Fine dell'Europa di Rafael Spregelburd, capolavoro filosofico e anarchico – sottovalutato dal pubblico – con il quale l'allora Stabile genovese, oggi Teatro Nazionale, aveva scelto di aprire la propria programmazione; e, davvero dulcis in fundo, ho avvertito la presenza di divinità ancestrali capaci di esprimersi in modo comprensibile e coerente con le miserie contemporanee attraverso il linguaggio onesto, scarno, poetico di Deflorian/Tagliarini, visti in Reality al Teatro Modena.
Da quando avevo quattordici anni a oggi, esistono molti altri artisti dimenticati e riemersi più volte nella mia vita, che lascio scivolare senza nessun timore di farli scorrere in un unico nastro, Rodrigo Garcia, Mimmo Sorrentino, Ascanio Celestini, Agrupación Señor Serrano, Pascal Rambert, Wim Vandekeybus, Suzan Boogaerdt & Bianca Van der Schoot, Nathalie Béasse.
E quando il nastro finisce, ripiegandosi su altre decine di titoli che ora sono spariti ma ritorneranno - Scimone e Sframeli, Ricci/Forte, Cristiana Morganti, Motus, Peter Brook... ma è troppo tardi, l'elenco è temporaneamente sospeso, resto io con il prossimo anno di O.C.A. davanti a me.
Perché lo faccio?
Critico spettacoli teatrali per esercitare il mio diritto di distinguere e imparare a scegliere.
Scegliere cosa?
Quello che esiste e quello che non esiste, pur ammettendo la convivenza di entrambe le condizioni.
Scegliere, per convenzione. Perché non può esistere realmente tutto in una vita sola.
E allora, il mio compito di critico è raccontare, nella vita, il teatro che, finalmente, esiste.
Un'operazione paragonabile al riconoscimento di un volto amico nella folla, una dichiarazione d'amore e di guerra verso ignoti, un guardarsi intorno mentre si cammina, con attenzione, col telefonino spento, a caccia di cose e persone che diano un senso al viaggio.
Per me esiste, esisterà se questo è un inizio, solo un teatro d'artista, in cui l'artista – parola splendida perché al di sopra di ogni genere, in tutti i sensi – è disponibile a perdere il proprio pubblico, a smarrirsi, a rovinarsi, pur di non tradire il valore della propria arte e ha fiducia nei propri mezzi poetici al di sopra delle mode dettate dalla cronaca, dall'agenda politica.
L'artista che non ha paura di sbagliare, l'artista ignifugo che esce illeso da un teatro in fiamme, da un ponte crollato, da un vuoto di memoria collettiva, che sbuca fuori dal fumo nero, divora i nomi e i cognomi dei politici e dei criminali e lascia che i succhi gastrici li distruggano, riportando equilibrio nell'apparato digerente della cultura.
L'artista che usa solo le parole che servono davvero per orientarsi in una realtà altra: parole che non hanno bisogno di essere nuove o vecchie, ma solo vere, in un mondo in cui Eduardo è contemporaneo a Sofocle e Rodrigo Garcia e la creazione diventa un tuffo nel presente, in cui il tuffatore, nell'atto di guardare davanti a sé e prepararsi al lancio, somma solo l'altezza del proprio ingegno con la profondità di un mistero.
L'arte che insegna a scegliere, a distinguere, ad ammettere eccezioni, ad accettare regole, a conoscere l'ebbrezza che si prova e il pericolo che si corre nel non rispettarle.
L'arte che non pensa alle conseguenze e che di questo solo è consapevole.
Perché le conseguenze dell'arte sono, di fatto, il lavoro dello spettatore e non dell'artista.
E alla fine, cioè all'inizio, di tutto, in questo agile bagaglio a mano di intenti, per decifrare tra le linee del presente lo spazio che il futuro riserva al - mio - teatro, mi sono pure dato un obiettivo: smetterla di fraintendere quello che vedo.
Perché il teatro, oltre ad essere un luogo altamente infiammabile, è per sua natura un luogo fraintendibile.
Ed è per questo che ci vogliono i critici.
Con un debole per i capolavori, voglia di innamorarsi e tanta buona memoria.
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