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Massimo Milella

Un Esercito di Polifemi | Go Figure Out Yourself


Zona K apre la sua stagione con una parola chiave, ambiziosa non poco, che è “realtà”, però tradotta in inglese ha quel tipico suono serio e pragmatico che hanno certe parole inglesi, “Reality”, come se in fondo chiamarla con il suo corrispondente in italiano dovesse restringerne i confini, rinchiuderla in un quotidiano nazionale, ormai periferico rispetto al mondo.

La stagione - val la pena dare un’occhiata più che approfondita perché c’è molto da scommettere in questa visione - si dirama in tre sentieri, #Global, #Human, #Virtual.

Go Figure Out Yourself, performance danzata e agita da Ultima Vez, la compagnia fondata e diretta da Wim Vandekeybus nel lontano 1986, inaugura la stagione in modo trasversale, al di fuori di ogni cancelletto social, attraversando così ogni confine tematico, come anticipazione illuminante di un percorso frastagliato, diversificato, socialmente e artisticamente.

La prima buona notizia dell’evento sta nella location, ovvero i nuovi spazi della Casa degli Artisti, ambientazione storica milanese restituita al pubblico da un intervento di una rete di cinque realtà di cui Zona K fa parte.

La performance si basa su una totale condivisione di questi spazi, si può dire una convivenza, in cui le regole sono molto chiare, così come la suddivisione fin troppo evidente tra ciò che è artista (danzatore, che propone, impone, suppone) e ciò che è pubblico (reagisce, non reagisce, si nasconde, si espone). Ora in scene d’insieme, ora a coppie, ora singolarmente, i danzatori della compagnia di Vandekeybus sembrerebbero orientare la loro urgenza in due principali traiettorie: una riflessione poetica sul potere e una sulla trasformazione di un’energia passiva in attiva, ovvero in un innesco politico dello spettatore, all’interno di una situazione performativa che, non solo lo coinvolge, ma lo spinge a condividere la responsabilità della scena.

Non vale dire “sì, va bene, l’abbiamo già visto”, perché vedere non è agire, ricordare un’esperienza apparentemente analoga non vuol dire essere in un luogo specifico.

E in questo, Vandekeybus, anche grazie alla pulizia vertiginosa dei suoi danzatori, è eccelso, riesce a creare un presente irripetibile, alla continua ricerca di un “atto”, parafrasando - e decontestualizzandolo, certo, anche - Carmelo Bene, ovvero qualcosa di altro da sé. Qualcosa che, quando succede, se succede, non è teatro che fa teatro o danza che fa danza, ma è anzi assenza di teatro, di performance, di modalità predefinita. A questo tende Go figure Out Yourself, attraverso una drammaturgia fluida - di Aïda Gabriëls - molto ben organizzata intorno a studiatissimi tentativi di manomissione del tradizionale patto tra chi fa lo spettacolo e chi lo guarda, muovendosi in un territorio pericoloso in cui parte del suo successo dipende fortemente dalla verità del suo pubblico, dall’adesione completa di esso allo squarcio spazio-temporale proposto da Vandekeybus.

Nello specifico, valga da esempio una lunga e minacciosa sequenza in cui, in uno spazio tagliato da luci basse radenti al suolo, si intravedevano, nella selva di gambe del pubblico, strisciare i corpi degli artisti, ora serpenti, ora scimmie in lotta tra loro. Improvvisamente sulle ceneri di questa trasformazione bestiale, si ergeva in piedi su una struttura di ferro la danzatrice Maria Kalegova con l’energia di un’ agitatrice di popoli. Da questa posizione privilegiata ci ha edotti sul nuovo gioco in cui ci avrebbe coinvolti, lo ha fatto con una determinazione militaresca, e di fatto noi pubblico eravamo così diventati immediatamente un unico esercito, schierato ai suoi ordini per combattere il Nulla, lo Spazio Vuoto, qualsiasi cosa fosse e che ci assediava con il suo silenzioso niente, come raccontava la nostra Imperatrice.

Ci siamo guardati intorno e abbiamo davvero sentito la minaccia del Nulla e più che novelli Achei sotto le mura di Troia, ci siamo sentiti come Polifemo nella caverna, ingannato da Ulisse, sia quando abbiamo accettato di dividerci in due distinte squadre d’assalto, lasciando al centro dell’enorme sala un gigantesco - e terribile - vuoto, sia quando ci siamo scagliati, corricchiando in realtà, non proprio agguerriti, contro questo invisibile nemico, a un ordine dato dalla nostra condottiera.

Tutto era evidentemente finto, giocoso. La nostra partecipazione alla guerra molto blanda, sorridente, attenta a non calpestare il nostro vicino o a non costituire motivo di inciampo per il “soldato” alle nostre spalle. Il vuoto però era vero, ed evidentemente in questo meccanismo drammaturgico, era quello che contava di più.

Lo spazio del non essere era infatti la metafora del potere, subìto e fintamente condiviso, che ogni giorno l’umano mediocre, non realmente illuminato dal potere stesso, sperimenta.

In questa chiave, il lavoro di Vandekeybus è decisamente intenso e sottile e vale la pena fare l’esperienza di questo Go Figure Out Yourself anche solo per esercitare nella finzione il nostro ruolo quotidiano di Polifemi ingannati.

Laddove forse il risultato è più dichiarato che effettivo è nella seconda traiettoria, ovvero quella che in qualche modo vorrebbe trasferire l’intento poetico in uno più sociale e politico: alla fine dello spettacolo - o della performance - gli attori denunciano la trappola della circolarità drammaturgica, rompendola con la costruzione di uno spazio quadrato in cui assemblare e in un certo senso rinchiudere il pubblico. Dagli angoli di questa figura, i danzatori avanzano verso il centro, riducendo quindi l’area dello stesso, chiedendo, con un microfono in mano, “Cosa dovremmo fare ora?”: il gioco mostra la sua struttura, svela il suo meccanismo e passa al pubblico la pesante responsabilità del finale, ovvero della scelta, che consiste non nell’attuazione, ma nella dichiarazione dei propri desideri.

Ognuno risponde come vuole e chi risponde vince il microfono stesso e pone la stessa domanda a un altro spettatore e via di seguito, finché non si evidenzia l’intento metaforico di un’azione creata in un “dentro” che vuole riverberarsi sullo spazio di fuori.

Ma, appunto, resta una convenzione, un’idea, che-sia chiaro sul piano filosofico-troverebbe il suo compimento - impossibile? - nella realizzazione effettiva di almeno uno dei desideri del pubblico, un esito troppo incongruo rispetto all’eleganza d’autore del progetto di Vandekeybus, che sceglie di fermarsi a un livello poetico, accontentandosi - e certo non è poco, ma chissà perché non è mai abbastanza - di alludere a una trasformazione. Aristocraticamente però, senza sporcarsi davvero le mani.

Elementi di pregio: l’intelligenza dei corpi che disegna lo spazio e conferisce verità alle proprie trasformazioni; la sensazione tangibile che qualcuno - i danzatori, lo spettacolo in cui si muovono - si stia davvero prendendo cura del pubblico, seguendo un progetto drammaturgico forte e rassicurante, persino troppo rassicurante, rispetto all’imprevedibilità presunta che ci si aspetta, forse a torto, da una performance.

Limiti: il coinvolgimento del pubblico è stato più simile a una complicità, a un patto di fiducia, che a un innesco attivo e reattivo di ogni singolo spettatore. A fronte di un percorso chiaro e lucido, si è in fondo perso, nel finale, il punto esatto della destinazione, forse perché si voleva che fosse così, o forse perché non sufficientemente esaurito nel suo reale intento.

regia, coreografia, scenografia: Wim Vandekeybus creato e interpretato da Sadé Alleyne, Maria Kolegova, Hugh Stanier, Kit King, Tim Bogaerts drammaturgia: Aïda Gabriëls disegno luci: Davy Deschepper, Wim Vandekeybus costumi: Isabelle Lhoas assistita da Isabelle De Cannière coordinamento tecnico: Davy Deschepper fonica: Bram Moriau direzione palco: Tom de With produzione: Ultima Vez coproduzione: Les Brigittines (Bruxelles) con il sostegno del Tax Shelter del Governo federale Belga, Casa Kafka Pictures Tax Shelter empowered by Belfius Ultima Vez è sostenuta dalle Autorità Fiamminghe e dalla Commissione Comunitaria fiamminga della Regione di Bruxelles-Capitale.

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oca, oche, critica teatrale
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