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Virilità, forse | Madri, Our Son, Parallax

  • Immagine del redattore: Matteo Valentini
    Matteo Valentini
  • 8 apr
  • Tempo di lettura: 7 min

Aggiornamento: 2 giorni fa


Non posso fare a meno dell’altro, non posso divenire me stesso senza l’altro

(Dostoevskij, Michail Bachtin) 


Ándra, uomo, è la parola che Omero sceglie per aprire l’Odissea: «Raccontami, Musa, dell’uomo versatile che vagò tanto…». 

Così come l’Iliade si costruisce intorno a mènis, ira, prima parola della letteratura occidentale, l’Odissea concentra il suo senso non nell’essere umano in generale, per cui forse sarebbe più indicato ànthropos, ma proprio nel maschio. E nel maschio in crisi, nel maschio naufragato, da recuperare.   

Nell’Odissea, l’eroe non è più un turbine, un cinghiale, un leone, una lingua di fuoco come davanti a Troia, ma è un uomo che ha paura, gode, soffre di nostalgia, si nasconde, mente. La prima volta che lo vediamo, Odisseo è sulla spiaggia di Ogiga, l’isolotto di Calipso, mentre piange fissando il mare che lo separa da Itaca. Vuole tornare a casa, recuperare il dominio sulla sposa, sulla casa e sugli averi (ci piaccia o no, siamo nell’VIII a.C.). Desidera tornare a Itaca, tornare a Odisseo, alla sua condizione di uomo, ma è insidiato dalle proposte di immortalità di Calipso, dalle trasfigurazioni di Circe, dall’antropofagia di Polifemo, dalla prepotenza dei Proci. Una volta recuperate con l’astuzia e la violenza le prerogative della sua virilità, Odisseo può compiere gli ultimi riti per scongiurare l’ira di Poseidone e, finalmente, godere il suo ritrovato status. 


Ulisse e le Sirene. Anfora attica a figure rosse (480-470 a.C.)
Ulisse e le Sirene. Anfora attica a figure rosse (480-470 a.C.)

Il sofferto avvicinamento all’identità maschile mi è sembrata una possibile chiave di lettura anche di tre spettacoli molto diversi tra loro, che sono transitati a Milano durante la seconda settimana di marzo. Sono Madri di Diego Pleuteri, per la regia di Alice Sinigaglia, primo appuntamento della rassegna “Stanze”, Our Son di Patrik Lazić e Parallax di Kate Wéber, diretto da Kornél Mundruczó, in scena rispettivamente in Triennale e al Piccolo Teatro.     

Tutti e tre hanno protagonisti maschili tra i 25 e i 35 anni che tornano in una casa abitata, nel passato o nel presente, dai propri genitori. Il dialogo tra loro è un terreno di ricontrattazione degli spazi, delle abitudini sociali, dei ricordi, del linguaggio, in cui spesso il sesso rappresenta uno strumento di differenziazione, se non di rivendicazione di una propria identità di genere. In Our Son, per esempio, il figlio (Amar Ćorović) torna, dopo molto tempo, nella propria casa natale, in Serbia, dove lo aspettano a pranzo la madre e il padre (Dragana Varagić e Aleksandar Đinđić). Sul rifiuto della sua omosessualità si concentra l’intero spettacolo, ancora prima del suo ingresso in scena. Lentamente emerge un passato scisso tra padre e madre, di violenze e di iperprotezione, di silenzi e di ascolto, di rifiuto e di senso di colpa che ricalca, troviamo nel foglio di sala, l’esperienza biografica di Lazić. La drammaturgia ha il rigore e la severità di un’autobiografia psicanalitica: non c’è spazio per alcuna enfasi poetica, emerge un bisogno di individuarsi rispetto a un’alterità e di comunicarlo nel modo più diretto possibile. Le luci fisse e accese a tutta sala, l’odore di cibo cucinato, la prossimità fisica avviluppano la platea e, contemporaneamente, le impediscono di sospendere la propria incredulità, come di fronte a un convegno o a una dimostrazione scientifica. La drammaturgia, peraltro, si costituisce in parte sulla lettura e sulla contestazione di un libro di Richard A. Cohen, ricercatore statunitense che pretende di aver scoperto le radici dell’omosessualità e i modi per “curarla”. 

Il punto di vista della narrazione è evidentemente quello del protagonista: sia il padre che la madre vi si ribellano in più punti, dicendo di non essere più disposti a recitare quella parte, a riconoscersi in quella versione dei fatti. Anche lo spazio del racconto, allora, diviene uno spazio di contrattazione identitaria. Se nessuno di «quei poveri sciocchi dei Feaci», direbbe Luciano di Samosata, osa contraddire Odisseo, in Our Son le continue repliche, giustificazioni e smentite alla versione del figlio portano a un’impossibilità di riconciliarsi e alla definitiva separazione della famiglia. Dice Lazić: «Our Son, in fondo, parla proprio di questo: di come smettere di essere vittime alla disperata ricerca dell’approvazione dei propri genitori».


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Our Son | Foto di Milena Arsenić

Il racconto è spazio di contrattazione anche in Parallax: qui non c’entra tanto la memoria biografica, ma quella storica e culturale, quella della Shoah e dell’identità ebraica. Sui due schermi che all’inizio dello spettacolo occupano il palcoscenico, separati soltanto dal muro di un’abitazione, assistiamo al dialogo tra un’anziana, Éva, e una giovane donna, sua figlia Léna (Lili Monori e Emőke Kiss-Végh). Ricordando antichi rancori e paure, legati alla compromissione del consiglio ebraico cittadino nelle deportazioni degli anni ‘40, l’anziana non ha nessuna intenzione di andare a ritirare la medaglia alla memoria che la municipalità di Budapest vorrebbe conferirle; d’altra parte, la figlia ha bisogno che quella medaglia venga ritirata e la sua identità ebraica riconosciuta, così da ottenere una sovvenzione per potersi trasferire a Berlino con suo figlio. Per tutta la prima parte, i corpi delle attrici, ripresi da una videocamera, sono preclusi alla nostra vista diretta, tranne quando la figlia apre la finestra che dà sulla platea e guarda lo spazio con aria trasognata, includendoci nella sua contraddizione. Pur essendone stata segnata così profondamente nella sua infanzia e nella sua identità, come noi Léna non può vedere la Shoah se non mediata da innumerevoli testimonianze, documentari, immagini: la cascata d’acqua che crolla sulla scena tra il primo e il secondo atto, quando gli schermi sono stati spenti e il muro divisorio sollevato, racconta di questa sovrabbondanza. La cura angosciosa che ha per sua madre, sola e colpita da frequenti amnesie, riflette quella con cui la generazione dei figli di Auschwitz ha rivestito il racconto impossibile dello sterminio, tra l’obbligo morale di ricordare e la necessità di uscire dal ruolo di vittime. 

Suo figlio, Jonas (Erik Major), entra in scena il giorno prima del funerale di sua nonna: si muove inquieto nella casa disabitata, si annoia, organizza su Grindr un’orgia con altri quattro uomini. Come in Our Son, il sesso omosessuale turba l’abitazione degli antenati e, contemporaneamente, funziona da chiave di volta identitaria. La durata dell’orgia è gargantuesca, la sua presenza indimenticabile, così come quella dell’alluvione appena precedente: le due evidenze sulla scena, nella loro eccessività, si richiamano e accendono una relazione impossibile tra memoria della Shoah ed espressione dell’identità omosessuale. Eppure, nella loro distanza, sia la cultura ebraica sia quella queer appaiono funestate alle radici dal lutto, dall’illegittimità, dalla ghettizzazione. In quest’ottica, in una casa costretta a conservare le croste del pane nei cassetti, praticare un’orgia è un atto di risemantizzazione, di posizionamento rispetto al proprio passato e di rivendicazione della propria identità, del proprio dolore all’interno di un dolore più antico. Per questo probabilmente la reazione di Léna di fronte ai postumi della festa è di rabbia, ma anche di comprensione e di vicinanza. Anche lei, a suo tempo, di fronte a Éva aveva faticosamente cercato di rileggere la propria identità: «Quando le piante vengono innestate diventano piante diverse, non è vero?».   


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Parallax | Foto di Nurith Wagner-Strauss

Ritrovarsi in un dolore comune sembra essere la chiave anche di Madri. Di nuovo, il terreno di incontro è la casa materna, dove il figlio (Vito Vicino) trova la madre (Valentina Picello) mentre, rimestando tra scatole polverose, cerca di ricordarsi la frase di un articolo letto tempo prima: «Di intimo c’è rimasto solo…?». Riusciranno a rispondersi solo alla fine, dopo aver misurato nuove distanze e scoordinazioni: frasi dette al momento sbagliato, tabù rievocati con eccessiva noncuranza, dimostrazioni di affetto malriposte. C’è una sostanziale disarmonia nella cura che ciascuno dei due cerca di avere nei confronti dell’altro: la madre vorrebbe aderire, forse da sempre, a un modello di esatta premura che le rimbalza in testa, ma non ci riesce, e forse non ci è mai riuscita; il figlio vorrebbe soccorrere la madre nelle sue, per il momento, leggere amnesie, vorrebbe avere l’autonomia per tenerle compagnia, ma ancora le porta i maglioni da lavare (altrimenti è lei che va a prenderli segretamente a casa sua). Odisseo, dopo essersi fatto riconoscere, sorregge il padre Laerte, svenuto per l’emozione, ma il figlio sembra incapace di sorreggere, così come la madre sembra incapace di svenire. Le luci fredde, lo zampettio delle blatte, le voci registrate e sovrapposte li costringono ad avvicinarsi al centro del dolore che li accomuna, una solitudine da naufraghi in cui, finalmente, si riconoscono.  

Qui sta la loro intimità: uno spazio, pure imperfetto, in cui poter risuonare assieme, che tutti i protagonisti dei tre spettacoli, in modi e con esiti diversi, sembrano andare cercando. Divenire uomo, allora, non riguarda tanto la sopraffazione o il dominio, ma la contrattazione; non si tratta più di conquistare Itaca, ma di risuonarvi. Ma d’altra parte, Odisseo, ancora in incognito, prega l’aedo della corte dei Feaci di cantare la presa di Troia e l’inganno del cavallo. Solo dopo essersi commosso, e dopo aver svelato la propria identità, narrerà le sue vicissitudini. Per identificarsi e raccontare di sé, insomma, chiede di poter risuonare nelle parole di qualcuno. Anche questo è un uomo dell’VIII a.C


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Madri | Foto di Camilla Morino


Madri. Visto l’11 marzo a Milano nello studio RaboniArchitetti - Rassegna “Stanze”

Di Diego Pleuteri con Valentina Picello e Vito Vicino 

regia Alice Sinigaglia

sound designer Federica Furlani 

scenografo Alessandro Ratti

luci Luca Scotton 

produzione La Corte Ospitale 

coproduzione SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione con il contributo della Regione Emilia-Romagna con il sostegno del MiC e di SIAE, nell’ambito del programma “Per Chi Crea”



Our Son. Visto il 12 marzo in Triennale Milano. 

Autore e regista: Patrik Lazić

Interpreti: mamma –Dragana Varagić, papà – Aleksandar Đinđić, figlio – Amar Ćorović

Produttore: Aleksandra Lozanović

Fotografo: Milena Arsenić

Design visivo: Miroslav Živanov

Produzione: Heartefact Fund, Belgrado, Serbia

Prima: giugno 2022 alle Heartefact House di Belgrado

Note per la facilitazione della comprensione per persone con disabilità uditive: Laura Artoni 


Parallax. Visto 14 marzo al Piccolo Teatro di Milano.

testo scritto da Kata Wéber, comprendendo anche le improvvisazioni della compagnia 

regia Kornél Mundruczó 

con Lili Monori, Emőke Kiss-Végh, Erik Major, Roland Rába, Sándor Zsótér, Csaba Molnár, Soma Boronkay 

scene Monika Pormale 

costumi Melinda Domán 

luci András Éltető 

collaborazione artistica e producer Dóra Büki 

dramaturg Soma Boronkay, Stefanie Carp 

musica Asher Goldschmidt 

coreografia Csaba Molnár 

produzione Proton Theatre in coproduzione con Wiener Festwochen | Freie Republik Wien, Odéon-Théâtre de l’Europe, Comédie de Genève, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, HAU Hebbel am Ufer, Athens Epidaurus Festival, Festival d’Automne à Paris, Maillon Théâtre de Strasbourg - Scène européenne, International Summer Festival Kampnagel – Hamburg, CNDO Orléans, La Bâtie – Festival de Genève 

con il supporto di Gábor Bojár e dott.ssa Zsuzsanna Zanker, 220volt, Számlázz.hu, Minorities Talents & Casting, Danubius Hotels


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