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Redazione

Zibaldoca: lo spettacolo che non c'è (ma che è stato)


E se il teatro non è mai stato puro esercizio contemplativo, ma dialogo incessante tra attore, ambiente e spettatore, allora non ha senso guardare al palcoscenico come a un acquario immacolato e al pubblico come a un bambino stupefatto. Al di là dei tentativi di mettere programmaticamente al centro lo spettatore e la sua percezione, bisognerebbe prima di tutto rivedere la sua condizione. Per delle nuove regole e delle nuove abitudini, dovrebbero essere accettati, in quel che resta della ritualità teatrale, gli squilli dei telefonini, i commenti a voce alta, i silenzi, gli applausi improvvisi, se lo spettacolo li merita. L’applauso è la misura tangibile della ricezione del pubblico, è l’espressione fisica del suo sguardo; dall’applauso si può capire come il pubblico guarda, ha guardato o guarderà. L’applauso parla del pubblico, prima ancora che dello spettacolo.

Lo spettacolo ha inizio. Un uomo distinto con in mano una valigia percorre cauto un fascio di luce che si staglia nell’oscurità. I sogni fungono da prefigurazione del destino dell'uomo, un poeta fallito nella vana attesa di un treno per «l’ovest» in una imprecisata stazione «dell’est», circondato da terribili presagi. In un racconto della raccolta Puttane assassine, Roberto Bolaño scrive che la matrice della storia privata di ognuno coincide con la sua storia segreta, «quella che non conosceremo mai, quella che viviamo giorno dopo giorno, pensando di vivere, pensando di avere tutto sotto controllo, pensando che quello che ci sfugge non abbia importanza»: come per Amleto, la scelta più difficile da considerare è quella di non seguire il padre, anche nel teatro «l’esercizio più doloroso è quello di disconoscersi», di diventare altro, scavalcando tradizioni, radici, pregiudizi.

Facendo a meno di ogni elemento scenografico, gli attori lavorano essenzialmente con i propri corpi e le luci per plasmare lo spazio scenico a supporto del ritmo della messinscena. La sensazione è quella di essere di fronte a un gigantesco lavoro di cesellatura e perfezionamento che ha portato a un lavoro preciso e puntuale nelle sue premesse intellettuali, svolte in scena con talento e amore. E forse più di tutto pietà per queste figure tragiche, piccole, criminali, mostruose, ma essenzialmente umane. Nessuno parla, sono tutti reticenti, usano metafore, doppi sensi, artifici, comodi rifugi del linguaggio, i personaggi si vergognano, si nascondono, i dialoghi sono travestimenti di paure profonde, il silenzio dell'orgoglio ammanta l'ambiente scenico, archi e pareti color crema: l'allucinazione è verbale, i fantasmi sono le parole stesse. Chi ascolta deve abituarsi sin da subito a ricucire mentalmente una drammaturgia frastagliata: si può descrivere in modo lieve il franare del senso delle parole, di una vita? Lo spettacolo fa a pezzi la vicenda, senza indirizzare cronologicamente i frammenti e senza giustapporli, ma facendone strumenti di un gioco combinatorio che lo spettatore è invitato ad articolare; i neri tormenti dell’animo tentano di sillabarsi in corpi che non sentono dolore, non conoscono piacere, ma li indovinano.

Dal momento in cui ci sediamo in platea, l'interprete femminile smette infatti di essere agli occhi di tutti una danzatrice napoletana di trent'anni o un corpo nudo - spesso facilmente sessualizzato - e, grazie alle musiche e a un’abile illuminotecnica, la ricerca coreografica rende possibile la sua stessa scomparsa. L'attrice si smaterializza, il pubblico dimentica il corpo della donna che, ormai impercettibile, diventa forma plasmabile e medium di un'immaginazione personale. Qualcosa di estremamente altruistico e commovente. La splendida immagine che illumina la performance più di ogni altra sperimentazione lessicale, quando la voce offre un parallelo illuminante tra la sensazione di cogliere il mistero di una notte stellata pur senza conoscere la complessità fisica del firmamento e quella di percepire l'intensità profonda e segreta di una coreografia pur riconoscendo che il sistema complesso di cui fa parte può anche rimanere oscuro. Un'ammissione implicita, forse, che la danza contemporanea sia l'accettazione di un invito e che possa quindi vivere di contemplazione e di bellezza, anche senza parole che la decodifichino. A meno che queste non diventino necessarie, quindi poesia:

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oca, oche, critica teatrale
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