Visivamente: è come se le narrazioni dei Fratelli Grimm fossero state adattate scenicamente dal genio di David Lynch, con una spolverata di Terry Gilliam. Riuscite a figurarvelo? Perché tutto - e questo è forse il vero filo conduttore, la vera coerenza interna - è filtrato necessariamente dal nostro sguardo, dalla nostra percezione e prospettiva: è un «io obeso» quello che interviene incessantemente con il suo peso sproporzionato, preme alle porte del nostro continuo parlarci addosso e ne è forse l’unico protagonista possibile.
«A me non piacciono gli spettacoli con un attore solo» mi dice una bambina con le sopracciglia a punta come chi vuole affermare qualcosa di importantissimo. Non gliel'avevo chiesto, non la conoscevo neppure, mi limitavo a essere tra il pubblico. La bambina è chiara già così com'è, ma insiste: «io voglio che ci siano più persone per...» qui vacilla la ricerca del lessico finora inappuntabile «...creare...» e la frase non finisce ma precipita in un breve attimo di incertezza, incalzato poi da altre bambine sue vicine che intervengono contando le persone del pubblico, sono cento, no sono mille, no un milione. Non ho le parole sufficienti per tenere testa a certi spunti, mi commuovo e resto a osservare il teatro prima che inizi il teatro.
Lo spettacolo ha inizio. Un uomo distinto con in mano una valigia percorre cauto un fascio di luce che si staglia nell’oscurità. I sogni fungono da prefigurazione del destino dell'uomo, un poeta fallito nella vana attesa di un treno per «l’ovest» in una imprecisata stazione «dell’est», circondato da terribili presagi. In un racconto della raccolta Puttane assassine, Roberto Bolaño scrive che la matrice della storia privata di ognuno coincide con la sua storia segreta, «quella che non conosceremo mai, quella che viviamo giorno dopo giorno, pensando di vivere, pensando di avere tutto sotto controllo, pensando che quello che ci sfugge non abbia importanza»: come per Amleto, la scelta più difficile da considerare è quella di non seguire il padre, anche nel teatro «l’esercizio più doloroso è quello di disconoscersi», di diventare altro, scavalcando tradizioni, radici, pregiudizi.
Facendo a meno di ogni elemento scenografico, gli attori lavorano essenzialmente con i propri corpi e le luci per plasmare lo spazio scenico a supporto del ritmo della messinscena. La sensazione è quella di essere di fronte a un gigantesco lavoro di cesellatura e perfezionamento che ha portato a un lavoro preciso e puntuale nelle sue premesse intellettuali, svolte in scena con talento e amore. E forse più di tutto pietà per queste figure tragiche, piccole, criminali, mostruose, ma essenzialmente umane. Nessuno parla, sono tutti reticenti, usano metafore, doppi sensi, artifici, comodi rifugi del linguaggio, i personaggi si vergognano, si nascondono, i dialoghi sono travestimenti di paure profonde, il silenzio dell'orgoglio ammanta l'ambiente scenico, archi e pareti color crema: l'allucinazione è verbale, i fantasmi sono le parole stesse. Chi ascolta deve abituarsi sin da subito a ricucire mentalmente una drammaturgia frastagliata: si può descrivere in modo lieve il franare del senso delle parole, di una vita? Lo spettacolo fa a pezzi la vicenda, senza indirizzare cronologicamente i frammenti e senza giustapporli, ma facendone strumenti di un gioco combinatorio che lo spettatore è invitato ad articolare; i neri tormenti dell’animo tentano di sillabarsi in corpi che non sentono dolore, non conoscono piacere, ma li indovinano.
Dal momento in cui ci sediamo in platea, l'interprete femminile smette infatti di essere agli occhi di tutti una danzatrice napoletana di trent'anni o un corpo nudo - spesso facilmente sessualizzato - e, grazie alle musiche e a un’abile illuminotecnica, la ricerca coreografica rende possibile la sua stessa scomparsa. L'attrice si smaterializza, il pubblico dimentica il corpo della donna che, ormai impercettibile, diventa forma plasmabile e medium di un'immaginazione personale. Qualcosa di estremamente altruistico e commovente. La splendida immagine che illumina la performance più di ogni altra sperimentazione lessicale, quando la voce offre un parallelo illuminante tra la sensazione di cogliere il mistero di una notte stellata pur senza conoscere la complessità fisica del firmamento e quella di percepire l'intensità profonda e segreta di una coreografia pur riconoscendo che il sistema complesso di cui fa parte può anche rimanere oscuro. Un'ammissione implicita, forse, che la danza contemporanea sia l'accettazione di un invito e che possa quindi vivere di contemplazione e di bellezza, anche senza parole che la decodifichino. A meno che queste non diventino necessarie, quindi poesia:
Una danza come rifugio, come esempio di comunità ideale in cui i suoi membri riconoscono le loro individualità in un collettivo, partecipano delle emozioni di tutti, si mettono in uno stato di ascolto, di relazione, di complicità. La tenace costruzione di una famiglia artistica autonoma e autosufficiente in grado non di rovesciare il mondo esterno, che la violenta e la minaccia, ma di potersene distaccare con orgoglio e bellezza, in un rifugio luminoso, animato da questa implacabile devozione alla totalità. La danza si presta non troppo sorprendentemente a evocare una scrittura fatta di ritmi e tonalità materiche: i molteplici flussi di coscienza sono tradotti nei filamentosi movimenti d'assieme, che sorgono e spumeggiano come onde.
In ordine di apparizione, ringraziamo: La plaza, Les irréels, Il cielo non è un fondale, Hans e Gret, Revérsible, Non ricordo, Il cane senza coda, Quasi niente, To be or not to be Roger Bernat, Gli sposi, Questi fantasmi, Trascendi e Sali, Petruska, Kokoro, Stories We Dance, Woolf Works, Pasta e Lava.
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