La storia quasi trentennale di Käfig, compagnia diretta dal coreografo Mourad Merzouki, è quella di un gruppo di acrobati e danzatori di Saint-Priest, popoloso comune a est di Lione, che già dalla fine degli anni ’80 cerca di abbattere i pregiudizi che confinavano l’hip hop (la danza, ma anche la cultura in generale) ai margini di un fenomeno minoritario. Intorno a questa solida base, Merzouki e compagni otterranno negli anni un successo mondiale – solo per fare un esempio, Recital, creazione del 1998, ancora oggi in tournée, ha raggiunto ormai più di 200 città in tutti i continenti; in Italia debuttò al Comunale di Modena e poi passò dal Torinodanza e in contesti piccoli e medi del Nord. Il suo percorso instancabile, ostinato, gli ha permesso di costruire, a partire da un’idea di libertà creativa e di coerenza poetica una carriera a cui non sono mancati riconoscimenti istituzionali prestigiosi e responsabilità artistiche importanti (come la direzione del Centre Chorégraphique National di Creteil, la Notte Bianca di Parigi del 2021 e molto altro). L’estetica di Merzouki è quella dello sconfinamento come processo creativo, della contaminazione di forme e linguaggi diversi, di un superamento di ogni specializzazione o etichetta. E se la mia definizione non apparisse particolarmente originale, se ne può avere un’idea maggiormente concreta trovando facilmente in rete qualche filmato di uno dei maggiori successi recenti del gruppo, Pixel (2014), creazione condotta in collaborazione con un altro gruppo visionario, il duo Adrien M & Claire B (Mondot e Bardienne), in cui il rapporto tra corpi e proiezioni (pixel in incessante metamorfosi in dialogo con danzatori e danzatrici), innesca suggestioni intense, ben al di là di una vuota etichetta di sperimentazione.
Tuttavia, non sembra che si possa fare riferimento prioritariamente a Zéphyr, la creazione vista al Corum di Montpellier - in Italia è stato possibile vederla al Festival Oriente Occidente di Trento nel 2022 - per fornire un esempio del coraggio sperimentale di questo coreografo. Non emergono, infatti, secondo me, elementi che spicchino per ricombinazioni sorprendenti o innovative, né tantomeno si registra una visione in grado di ribaltare l’immaginario complessivo che il titolo suggerisce. Il concept generale del design di luci e impianto scenico, la dimensione sonora, le dinamiche coreografiche, individuali e di gruppo, in cui tutto è perfettamente organico e coerente: tutto si tiene insieme, senza rotture in un bel progetto artistico in cui forza della natura atmosferica e forza della natura umana ingaggiano una danza che impressiona per il dettaglio, la cura, la qualità dell’artificio scenico.
E in fondo, non è necessariamente sempre nella sorpresa che risiede il piacere, né tantomeno l’ingaggio di una sfida rischiosa con il pubblico è l’unico processo in grado di risvegliare un certo interesse in chi guarda. A volte, l’atmosfera generale magnetica, l’intensità di un gruppo di danzatori ferocemente concentrati su un obiettivo comune, la chiarezza di un’idea semplice e organica in grado di supportare le eccellenze di suono, corpo, immagini, che Zéphyr offre al suo pubblico, sono segni di onestà intellettuale non scontati.
Foto di Laurent Philippe
Dieci elementi, danzatori e danzatrici, convivono in un habitat dominato da una colonna sonora sontuosa e avvolgente – i brani musicali, tutti originali, sono ad opera di Armand Amar, premiato compositore di colonne sonore per lo più cinematografiche. La scena è costituita da fori circolari, disposti sulle quinte laterali e sul fondo, attraverso cui grandi eliche diffondono scariche di vento di differente intensità. L’azione del vento – di cui Zéfiro è rappresentazione mitologica, foriero di primavera – è assoluta protagonista, il che innesca una dinamica interessante perché la natura invisibile di tale forza si riflette inevitabilmente solo attraverso le torsioni, le difese, gli abbandoni: le metamorfosiche assumono i corpi – come anime/colombe dantesche – nell’atto di resistere e cedere, tormentarsi e accettare il gioco. Il fascino di queste coreografie scolpite dalle correnti sta proprio, infatti, nel lasciar vedere gli attriti, i condizionamenti, le reazioni, di gruppo e individuali di corpi educati allo slancio, alla sfida alla gravità, a muscoli che impattano sulla terra senza farsi male, traendo da essa slancio immediato e insospettabile verso l’alto, divini quasi nel negare la pesantezza dell’umanità. E, pure, nella leggerezza, nella sospensione di corpi dal movimento incessante – sono rarissime le immobilità, anche nel riposo – colpisce allo stesso modo la solidarietà, la forza di un gruppo che si fa corpo unico, tanto quanto la solitudine di chi cede – mi sono chiesto come sia difficile combinare in un corpo danzante la dinamica di un cedimento a quella della presenza – o la gioia creativa di chi trasforma una condizione apparente di vittima non in carnefice, bensì in qualcos’altro, di più ineffabile. Sfuggire alla dicotomia è un farsi vento a propria volta, è un lasciarsi muovere, anziché un muoversi. Zéphyr non costringe infatti all’azione, non crea una gabbia (traduzione italiana del tedesco Käfig) in cui ogni danzatore o danzatrice si trova vincolata a rispondere a un elemento esterno. Non è un laboratorio di precarietà o di squilibrio, per cavie da spettacolo, ma un dispositivo pacifico – o pacificato? – in cui, benché predominante, la dinamica del vento non è l’unico accadimento: c’è anche l’opzione del riposo, appoggiandosi alle pareti, al pavimento, ai corpi dei compagni, e quella della via d’uscita, gli stessi buchi dai quali soffia il vento sono all’occorrenza anche porte per scomparirvi dentro, per qualche istante. In Zéphyr, tutto parte da un piccolo ventilatore sul proscenio, verso il quale una coppia di danzatori rivolge la propria assorta contemplazione. .
Le luci, poi, ampliano lentamente l’ombra dell’oggetto, fino a proiettarne la sua figura, moltiplicata, distorta, quasi sinistramente, in tutto lo spazio visibile, per poi, al termine del percorso drammaturgico, ritornare alla sua dimensione, portando così – compito arduo, tanto quanto elegante – l’attenzione del migliaio abbondante di persone in platea su un oggetto così minimale che a malapena si riesce a vedere dal quinto piano del loggione in cui mi trovo. Però, se ne intuisce la materialità e la sua dimensione letterale prevale sulla eventuale metafora.
Allo stesso modo, i corpi, i loro rapporti, le loro storie di carne muta, prevalgono sul vento, che invece, non visto, bada a impossessarsi di tutto lo spettacolo, compresi i paesaggi che esso sferza – evocati da un prezioso lavoro di illuminazione, compaiono deserti ostili, mari in tempesta, in riferimento piuttosto esplicito alle tragiche migrazioni della cronaca del mediterraneo, ma anche più in generale alla direzione “ostinata e contraria” dei movimenti umani. Il ventilatore, con le sue minuscole pale, è punto di partenza e di arrivo, si sviluppa e svanisce come un’idea, racchiusa in un cono di luce.
É in definitiva a questa piccola idea, sulla quale si imperniano le infinite varianti di Zéphyr, che il pubblico del Corum di Montpellier riserva un applauso febbrile, urlante, interminabile, a cui le danzatrici e i danzatori, insieme allo stesso Merzouki, rispondono con un bis, un’esibizione in totale libertà, improvvisando degli assoli free style di hip hop, scanditi da battimani calorosi da parte di una platea che, davvero, almeno nella maggioranza dei casi, mi pare di poter dire – e in uno spazio che può arrivare a contenere duemila spettatori, peraltro straripante di pubblico, la maggioranza è un numero ingente – non vorrebbe più andare via.
Poco male se l’entusiasmo espresso sia stato probabilmente frutto dell’ammirazione e della stima profonda con cui gli spettatori di Montpellier supportano Merzouki da molti anni, in parallelo con – quando non a prescindere da – il fascino di Zéphyr. E poco male, ancora, se la carica sovversiva, ribaltante, incendiaria dell’hip hop è qui celebrata al servizio di una platea che la desidera ardentemente e che quindi Zèphyr, creatura affettuosamente recepita, nasca e cresca interamente all’interno di una solidissima sfera di consensi.
Proprio in questa fase finale della serata, mi è tornata in mente una storica dichiarazione dell’ex cestista NBA Allen Iverson, quando ancora era guardia dei Philadelphia 76ers, dilaniato dalla sofferenza per la recente uccisione di uno dei suoi migliori amici, sovrappone questo episodio ad altre difficoltà, invece prevalentemente di carattere sportivo che stava attraversando spiegando ai giornalisti presenti in sala stampa che il basket, per lui, non è un “game”, ma una “practice”. Cioè, pensare il gioco non come un complesso di tattica, tecnica, sistema commerciale che lo regge, ecc., ma come una pratica esistenziale, dentro la quale, per sua stessa ammissione, l’hip hop è centrale. Molto più di un passatempo, l’hip hop degli anni ’90 – proprio quelli in cui Merzouki in altre latitudini ha radicato la propria identità costruendovi intorno, con orgoglio e coerenza, una straordinaria carriera – è un’estetica che si fa etica di vita, è condizione dinamica dentro e fuori dalle regole di un progetto di collettività, non sempre condiviso, nel quale il conflitto, contro i pregiudizi, il razzismo, gli abusi della polizia e della cosiddetta società civile, è quotidiano.
A mio avviso, in Zéphyr la potenza dell’hip hop non riesce a squarciare il pensiero, non tanto per il suo nobile proposito di dialogare con altri modi e altri mondi, nella ricchezza di una contaminazione, quanto per l’effetto di tripudio collettivo generato che, in un certo senso, sembrava davvero concentrarsi unicamente sul virtuosismo infallibile dei corpi di danzatrici e danzatori e sull’effetto meraviglioso del loro potere extra-ordinario. Con il rischio, dunque, che questa operazione, assai probabilmente suo malgrado, rischi di smettere i panni di una “practice” e, all’interno di una tranquilla zona di comfort, si limiti a farsi applaudire per il proprio “game”, ovvero un’esibizione artisticamente elegante e fisicamente complessa, di altissimo livello poetico, ma che in fondo rimane pur sempre un gioco.
Zéphyr
visto alla sala Berlioz del Corum di Montpellier
Direction artistique et chorégraphie Mourad Merzouki
Assisté de Marjorie Hannoteaux
Création musicale Armand Amar
Scénographie Benjamin Lebreton
Lumières Yoann Tivoli, assisté de Nicolas Faucheux
Costumes Emilie Carpentier
Avec Soirmi Amada, Ethan Cazaux, Emma Guillet, Ludovic Collura (ou Wissam Seddiki), Adrien Lichnewsky, Simona Machovičová (ou Vanessa Petit), Camilla Melani, Mourad Messaoud, Tibault Miglietti, James Onyechege
Crédits musicaux additionnels Long Distance Productions - Chant : Isabel Sörling - Violon : Sarah Nemtanu - Alto : Lise Berthaud - Violoncelle : Grégoire Korniluk - Piano : Julien Carton - Enregistrement, mixage, création sonore : Vincent Joinville aux Studios Babel de Montreuil-sous-Bois - Production : Katrin Oebel
Production Centre chorégraphique national de Créteil et du Val-de-Marne / Cie Käfig
Coproduction Département de la Vendée, Maison des Arts de Créteil
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