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Vader 

Teatro Nazionale di Genova, 8/9 Ottobre 2019

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Franck Chartier e Gabriella Carrizo, direttori artistici della compagnia belga Peeping Tom sin dalla sua fondazione nel 2000, hanno iniziato nel 2014 una trilogia dedicata, idealmente, alla "famiglia": Vader, Moeder, Kind. Il primo scritto da Carrizo e diretto da Chartier, il secondo a parti invertite, l'ultimo, datato 2019, condotto insieme.

 

Quello che abbiamo visto a Genova, dunque, probabilmente non esaurisce all'interno dei suoi novanta minuti di spettacolo la propria poetica, perché è senza dubbio parte di un affresco creativo articolato in cinque anni – e in questo appare del tutto sensata la scelta di chi, all'interno del Teatro Nazionale di Genova, ha voluto far debuttare a Genova un primo capitolo, augurandoci di assistere agli altri due, senza aspettare troppo tempo.

 

Ma, premessa a parte, ecco cosa ne pensano alcune Oche che l’hanno visto.

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Vader è un'opera danzata, cantata e recitata con virtuosismo estremo, una composizione onirica e cupa che combina una surreale ironia alla Kaurismaki con allucinazioni degne di un film horror.

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Ci sarebbe anche forse una storia in Vader, se mai si fosse sentito il bisogno di ricamarne una all'interno di una struttura fatta di scene piuttosto chiuse, giustapposte l'una accanto all'altra e collegate attraverso dissolvenze segnate da semplici cambi di luce o modulazioni di ritmo nelle coreografie.

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Ma raccontarla non è centrale in questa osservazione. Val più la pena dire che Vader non è un dispositivo creato necessariamente per emozionare e, a dire il vero, non sembra neppure intenzionato a raccontare davvero la solitudine di un padre anziano, in conflitto tra ciò che non può più fare fisicamente e ciò che mentalmente è in grado di immaginare – camminare, cantare, suonare il pianoforte, sedurre le altre pazienti dell'ospizio.

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Ha invece tutta l'aria di essere una grande opera sui limiti del corpo, quello giovane, però, un’indagine sulla muscolatura poetica, sensibile, creativa, costantemente in cerca del momento in cui si tende fino all'estremo, per poi fluire e trasformarsi in un altro corpo, in un altro personaggio: un inserviente che diventa un paziente, una giovane cantante che vede lentamente svaporare la propria bellezza durante le note oblique e rallentate di una splendida versione di Agua de Março di Jobim, senza contare le costanti - e reiterate - metamorfosi dei personaggi in creature immaginate dal protagonista.

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Questo lavoro sulla metamorfosi è il nucleo vivo di Vader, il suo unico vero tesoro ammaliante, valorizzato in particolare da due artisti di qualità fisica rara, il coreano Hun-Mok Jung e la taiwanese Yi-Chun Liu.

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Eppure, nello scrosciare degli applausi di spettatori ipnotizzati da esibizioni di virtuosismo attoriale e registico di notevole spessore, ho sentito nell’impianto di Vader una grande assenza: l'empatia. Con il personaggio principale, mai davvero in relazione con le altre figure in scena; con il ruolo paterno in generale, mai esplorato davvero fino in fondo; con l'idea stessa della solitudine, relegata a pretesto di una drammaturgia priva di profondità, del tutto affidata alle coreografie straordinarie, ma ossessionate da una necessità di serrare il ritmo e dalla frenesia della metamorfosi continua.

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Infine, ho avvertito il rumore di uno spettacolo che non ha avuto davvero abbastanza fiducia nel corpo dei suoi attori, negando loro il dono della pausa, della lentezza, della leggerezza, un corpo più semplice che raccontasse, da solo, molto più di quello che l'imponente apparato scenografico ha saputo fare.

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Nel suo ultimo, incompiuto e impossibile romanzo - Il Re Pallido - David Foster Wallace scrive «Routine, ripetizione, tedio, monotonia, inconsistenza, astrazione, disordine, noia, angoscia, ennui - questi sono i veri nemici dell'eroe, e non si sbagli, sono temibili davvero. Perché sono reali.» Non saprei trovare un commento migliore per questo Vader di Peeping Tom in cui la figura del Padre crolla dal suo autocelebrativo piedistallo millenario in un abisso di ennui, nel tempio della routine senza scopo: la casa di cura per anziani.

Che il Padre sia stato l'Eroe per eccellenza non lo risparmia dalla sua regressione inevitabile, verso la demenza e vacuità, da persona a oggetto; che la dominante pallida del tedio ci sia qui mostrata con sfumature di toni infiniti, dalla tenerezza al cinismo, dal sorriso all'insopportabilità, e con un ventaglio di modalità espressive ampio e quasi sempre di alta raffinatezza, è il risultato di una  capacità indagatrice abbinata all’eccellenza tecnica della compagnia.

Le sezioni di teatro danza della rappresentazione lasciano ammirati per la coincidenza di precisione esecutiva e rilevanza semantica: la traduzione della ritualità ossessiva della quotidianità in movimenti vorticosamente ripetitivi è solo un esempio, e forse quello più facilmente traducibile in parole. Ma forse l'elemento più decisivo per la messa a fuoco impietosa che Vader compie del ruolo paterno sta nell'implacabilità iperrealista della scenografia. La precisione e maniacalità della scansione spaziale degli oggetti in scena restituisce allo stesso tempo la sensazione della realtà e il suo fondamentale straniamento. Svelando l'elemento di finzione della scenografia della realtà al di fuori del teatro, Vader compie l'evocazione dell'abisso in cui già ci troviamo, insieme al Padre.

Una lingua di luce attraversa obliqua il palco della Corte. E subito la scena si colora di personaggi grotteschi, senza più ossa ma dal viso sorridente che si muovono nella penombra di un ospizio. Vader trascina lo spettatore per 70 minuti in un racconto in cui la rappresentazione della vecchiaia si fonde con la vecchiaia stessa. Un numero consistente di figuranti, rappresentanti dell'anziana Genova, si confonde infatti con il cast multiculturale della compagnia belga.


Un'unica scena, quello di un affollato refettorio, ma a destare meraviglia è la sovrapposizione di piani che si viene a creare da subito sul palco: ai lati della grande sala, figuranti e cast si mescolano nei panni di inservienti e pazienti, il centro è riservato ai danzatori con i loro movimenti gravanti a terra, di ginocchia trascinate, schiene curve e capriole continue e, sullo sfondo rialzato di un piccolo palco, alcune anziane genovesi mimano i gesti di una band. I piani sono invertiti in continuazione e le figuranti diventano persino le protagoniste di rapide scene che rubano una risata. Sembra quasi che Vader sia giocato sul rimbalzare da un piano all'altro, da un'azione a un canto, da una battuta a una coreografia di torsioni e contorsioni. E questo rimbalzare da una scena all'altra lascia, a fine messinscena, lo spettatore stordito, affaticato dalla ricerca vana di una chiave di lettura - al di là di una più che evidente rappresentazione di una ciclicità nella vecchiaia -, a momenti insoddisfatto da una rappresentazione così comica del tema, dove il lato oscuro e lugubre della vecchiaia sembra rimanere relegato quasi unicamente a luci e scenografia.

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Con Vader viene inaugurata una trilogia famigliare che è malinconico ritratto di sforbiciate solitudini, isolate in cornici surreali e grottesche, a tratti paurose. Viviamo così, come davanti a una pellicola lynchiana, il dramma psicogeno dell’anziano legato al vissuto dell’ “abbandono”: da una parte, l’abbandono fisico rappresentato dal confinamento in un ospizio, popolato da fantasmi riflessi dallo specchio deformante di una straniante quotidianità, dove realtà e suggestioni si mescolano pericolosamente in un cocktail di sfrenato delirio; dall’altra, l’abbandono mentale, l’elaborazione dolorosamente personale del dover lasciar andare la vita come la si conosceva prima, la vita del fuori, dell’io autodeterminantesi, sprangata al di là di porte che non si riescono più ad aprire e di stanze che non si possono più abbandonare, almeno sulle proprie gambe.

In questo fluire di identità disciolte, emergono i momenti coreografici, straordinari a livello tecnico ma dal tratto freddo e ripetitivo: nelle molteplici convulsioni che seguono un pattern decisamente ricorrente abbiamo quasi il bisogno nascosto, a volte, di un gesto più sobrio, di un gesto più intimo, di un gesto più fermo, che abbia il coraggio di issarsi e di conficcarsi nella narrazione, nel corpo straordinario dei performer lungo cui l’emozione scorre lontano, incapace di addensarsi. Scelta registica coerente che ben rende l’idea trainante dell’intero spettacolo: la deformazione mostruosa del tempo e dello spazio vissuti da un’interiorità paralizzata, un incubo a cui è impossibile sottrarsi neppure al risveglio. Eppure...forse è proprio la dimensione “leggera” del sogno, incarnata in parte dal bravissimo coro degli anziani genovesi, a mancarci un po’ e a trasmetterci nostalgia di altro, oltre questi demoni di spietata grazia.

oca, oche, critica teatrale
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