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Gli ultimi saranno gli ultimi se i primi sono irraggiungibili. 

(Quelli che benpensano, Frankie hi-nrg mc)

In scena al Piccolo Teatro di Milano dal 23 gennaio al 16 febbraio 2025, Zorro di Antonio Latella non presenta le avventure di Don Diego de la Vega. Piuttosto, partendo da un incontro fuoriscena con alcuni mendicanti che chiedevano l’elemosina travestiti come il leggendario eroe televisivo, lo spettacolo propone una riflessione sulla povertà, sulla cultura pop e sul teatro.

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Impaginazione di Eva Olcese

Recensioni di Letizia Chiarlone, Eva Olcese Matteo Valentini

Foto di ®Masiar Pasquali 

Zarro, più che Zorro

Sprofondare in un sogno lucido può essere questione di una frazione di secondo o un lento scivolare nei meandri della propria mente, dove si resta sospesi tra uno stato di coscienza posticcio e la coltre immobile imposta dal sonno. In questo caso, seduti sulla poltroncina di velluto rosso, la discesa sembra essere avvenuta tutta d’un tratto, nel battito di ciglia che separa l’atto di chiudere le palpebre dal diventare un legno alla deriva tra le onde agitate del dormiveglia: nell’aria satura di volute di fumo sottili, pugnalate da fasci di luce dai mille colori, si intravede, sulla destra, una cabina fotografica vintage, affiancata, sull’altro lato, da un cactus a dimensione naturale. Non si capisce bene se ci troviamo al Piccolo di Milano o se siamo in attesa di assistere alla registrazione estemporanea di una puntata di Colorado.

Sulla scena, al centro, con il suo completo paillettato alla Elvis Presley, spicca una figura in posa. È impegnata a mantenere la stessa posizione statuaria per alcuni minuti consecutivi, prima di impostarne una nuova. Non trascorre molto tempo prima che la scena venga animata da altri tre personaggi, vestiti della stessa tutina appariscente distinta per colore. Assecondando una struttura schematica per cui gli attori (Michele Andrei, Paolo Giovannucci, Stefano Laguni, Isacco Venturini) continuano a interscambiarsi quattro ruoli fissi, lo spettatore viene sottoposto a una cadenzata successione di eventi, ripetitiva, logorante. Tra sofismi e invettive, supportati dalla presenza silente del Cavallo e del Muto, che si limitano a fare da sfondo, il Poliziotto e il Povero si confrontano sul tema della povertà. Mescolando riferimenti a Beckett e al suo Aspettando Godot, al metodo Stanislavskij, adottato per calarsi nei panni di povero, e all’ispirazione fortemente anti-realistica del teatro brechtiano, Antonio Latella porta sulle scene l’infelicità della miseria, alla mercé della risata di un pubblico borghese.

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ZORRO_Laguni, Venturini, Giovannucci, Andrei_®MasiarPasquali

L’obiettivo è davvero quello di far scaturire una riflessione sulla portata sociale della tematica? Questo Zorro un po’ zarro, con il suo tripudio di colori e battute scontate, è davvero ancora dalla parte dei deboli?

Per quanto ci si sforzi di associarlo alla figura dello zanni, personaggio del servo da commedia che si fa portatore di una critica sociale giustificato dal suo status, lo Zorro di Latella risulta forzato, disinnescato nel suo aspetto rivoluzionario, un mero burattino atto a compiacere l’opinione condivisa senza veramente sfociare in un’azione di protesta. O, almeno, una in cui, sotto il luccichio dei lustrini, creda veramente.

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ZORRO_Laguni, Venturini, Giovannucci, Andrei_®MasiarPasquali

A Milano la povertà vende

Se Ken Loach – figlio di operai – è il cantore della classe proletaria contemporanea e il cinema di Luca Guadagnino incarna l’erotica noia borghese, sembra quasi paradossale assistere a uno spettacolo di Antonio Latella sulla povertà, tema apparentemente lontano da uno dei registi nostrani più celebrati e presenti nel sistema teatrale italiano. Da Latella ci aspettiamo i testi shakespeariani, ci aspettiamo La valle dell'Eden o Un tram che si chiama desiderio, ci aspettiamo la tragedia, la grande tradizione teatrale, il kolossal. Ad aggiungere stupore allo stupore nel suo ultimo spettacolo, Zorro, aiuta il fatto di trovarsi tra le mura del Piccolo Teatro di Milano, nel cuore di una città dove la povertà e l’esclusione sociale crescono più rapidamente che altrove in Italia. Infatti, se un tempo Giorgio Strehler e Paolo Grassi sognavano che questa sala fosse un luogo popolare, accessibile a tutti, oggi il prezzo medio di un biglietto oscilla tra i 20 e i 30 euro: l'idea di far dialogare la classe alta con quella bassa attraverso questo spettacolo è del tutto utopica. Latella stesso sembra esserne consapevole e, tramite uno degli attori, interpella il pubblico chiedendo chi tra loro si senta povero. In risposta, neppure una mano si alza in platea.

 

Nello Zorro di Latella non c’è disperazione, ma tutine che gridano al lusso con mantelli e lustrini. Il testo si snoda tra litanie sugli ultimi, battute sulle lobby che «puniscono molti e favoriscono pochi», lunghi monologhi sul sovraffollamento delle carceri e gli interessi bancari. Tutto è ridotto alla dimensione dello slogan, dell’aforisma da Bacio Perugina, ogni tanto affiora un po’ di amarezza o un gioco di parole arguto, ma nella maggior parte dei casi si tratta di considerazioni poco incisive, assimilabili alle conversazioni di circostanza che ci scambiamo davanti a una tazzina di caffè al bar. Se Paolo Sorrentino ha fatto di questo linguaggio pubblicitario un marchio di fabbrica, qui il risultato è meno incisivo. La drammaturgia, scritta a quattro mani con Federico Bellini, sembra non raggiungere mai un climax, complice una struttura a quadriglia dove gli attori si alternano nei ruoli di povero, poliziotto, muto e cavallo.

«La povertà non è spettacolare, non vende» recita il povero a inizio della pièce. Eppure, Zorro sembra dimostrare tutto il contrario. Questo cabaret per benestanti, arricchito da intermezzi musicali che spaziano da Tedua ad Alain Bashung fino a Elvis Presley, infatti, è stato fortemente voluto da Claudio Longhi, direttore del Piccolo, e programmato in sala per una ventina di giorni. Viene da chiedersi se Latella, proprio come il suo personaggio quando si spoglia davanti alla platea, si sia domandato se trattare un tema simile con tanta leggerezza lo renda più fuori luogo o semplicemente ridicolo. Tanto più che il regista campano motiva la scelta della quadriglia in scena non soltanto come espediente per l’inversione dei ruoli, ma anche perché, secondo alcune fonti storiche, tale danza veniva eseguita in Francia con finalità benefiche, volte a raccogliere fondi per le fasce più disagiate della popolazione. Un intento che, per quanto ci è dato sapere, Latella non sembra aver fatto proprio.

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ZORRO_Laguni, Venturini, Giovannucci, Andrei_®MasiarPasquali
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«Faccio una buona figura o rasento il ridicolo?», chiede al pubblico Michele Andrei, nudo del suo jumpsuit alla Elvis Presley. Poco dopo, quando il cactus sullo sfondo protesta: «Non sono un carciofo, sono un cactus», Paolo Giovannucci sospira: «È un momento di un imbarazzante…». Il ridicolo, l’imbarazzante, il cringe sono categorie estetiche regolarmente frequentate dalla regia di Antonio Latella e dalla drammaturgia scritta in collaborazione con Federico Bellini. Sono ridicoli Andrei e Giovannucci che nel foyer del teatro si esercitano in pose plastiche prima dell’inizio dello spettacolo. Lo sono gli arzigogolati dialoghi tra il poliziotto e il povero sulle incomprensioni di genere. Così come le tirate sulla natura riflessiva dei poveri; sull’arte borghese; sulla pretesa continuità tra Zorro, giustiziere degli oppressi, e Zanni, affamato per eccellenza, a richiamare lo stereotipo dell’artista scapestrato e irriverente, fool della società perbenista, smascheratore mascherato. Tutto è troppo artefatto e sofistico per creare una qualche presa di coscienza nello spettatore, anche quando si snocciolano i dati sul prezzo degli affitti in California – ambientazione della serie televisiva. D’altronde Latella, da buon postmoderno, non crede alla possibilità di un messaggio: nonostante il tema civile, lo spettacolo non ha alcuna vocazione maieutica. Anzi, il cringe serve a sgombrare ogni sospetto di teatro sociale: qui non si vuole, né si può, sconvolgere nessuno. È un teatro di privilegiati per privilegiati e va bene così - e va davvero bene così, chi lo vuole un Latella militante. 

Zorro proclama l’inanità del teatro – del teatro borghese, se questo aggettivo ha ancora un senso – di fronte al disastro sociale che, almeno in Italia, Milano rappresenta egregiamente. Propone una riflessione ombelicale, lo sa e per questo si disprezza, tanto che sul ciclopico segnaposto di Google Maps con scritto “Piccolo Teatro di Milano” Andrei simula una pisciata. Però si piace. E sa di piacersi. Sa anche, nel suo piacersi, di annoiare. Anche noi sappiamo che lui sa. Siamo tutti consapevoli, ben oltre la sospensione di incredulità, impossibili da educare ancora: guardiamo Zorro auto-sabotarsi, affondare nell’abisso dei doppi sensi e della retorica pauperista e farci l’occhiolino. «Mio simile, fratello mio», sembra dirci. Ma non troviamo tragedia in questo abisso, solo ottima tecnica attoriale e paillettes. Lui, di nuovo, questo lo sa. A noi, però, importa davvero poco.

L’ombelico del Piccolo

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Visto al Piccolo Teatro di Milano, Teatro Grassi, il 16 febbraio 2024

Zorro

di Antonio Latella e Federico Bellini 
regia Antonio Latella
scene Annelisa Zaccheria 
costumi e simboli personaggi Simona D’Amico 
suono Franco Visioli 
luci Simone De Angelis 
movimenti coreografici Alessio Maria Romano
assistente alla regia Paolo Costantini 
con Michele Andrei, Paolo Giovannucci, Stefano Laguni, Isacco Venturini 
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa

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oca, oche, critica teatrale
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